[LetteraTour, Tappa 14] La liturgia del fuoco
Il resoconto della quattordicesima tappa del Tour de France 2023, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile oggi a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere registrandosi qui.
Era un’estate torrida, il mondo flirtava con la fine e sulle strade di Francia andava in scena uno spettacolo senza pari. Anzi, lo spettacolo di due pari: i corridori ciclisti Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar, o se preferite il giorno e la notte, lo yin e lo yang, una fotografia e il suo negativo, Ettore e Achille che continuano a scambiarsi i ruoli in un confronto che più passano i giorni più trascende la sua natura sportiva per farsi racconto epico, seminario di psicologia, trattato di teoria dei giochi, galleria d’arte moderna, concerto d’archi, e sarebbe il caso che qualcuno cominciasse a incidere quest’edizione del Tour su disco dorato, iper resistente, simile a quello che negli anni ’70 venne caricato sulle sonde Voyager con lo scopo di mostrare le diverse varietà di vita e culture della Terra agli esseri pensanti che dovessero un giorno raccattarlo oltre il sistema solare.
Ascolterebbero costoro il vento e il canto delle balene, saluti in tutte le lingue del mondo, Bach e Chuck Berry; vedrebbero le onde del mare, i fulmini nel cielo, il Grand Canyon, la struttura a elica del DNA e in una cartella, tra le altre, la registrazione della quattordicesima tappa del Tour de France 2023, accompagnata da una didascalia: questo è lo sport del ciclismo, qui c’è la bellezza del nostro scalare le montagne, l’origine dell’umano bisogno di misurarsi, il senso dei soli conflitti che andrebbero promossi.
Ci perdonerete il trasporto, ma servirà del tempo (e non ne abbiamo molto) prima che i nostri battiti riprendano il ritmo naturale dopo la sovreccitazione provocata dall'ascesa al Joux Plane – e da quel che è stato prima, e da quel che è avvenuto dopo. Quattro ore in tutto, difficilmente dimenticabili. Era apparso evidente fin dall’inizio (un inizio ritardato dalla prima caduta di gruppo di questo Tour: ritirati Pedrero, Meintjes, Guerreiro Sinkeldam e Chaves) che non fosse un pomeriggio per avventurieri.
In un sorprendente cambio di strategia rispetto alle puntate precedenti, la Jumbo-Visma sceglieva di trattenere tutti i suoi corazzieri accanto a Vingegaard. Nemmeno a Van Aert veniva concesso il solito surrogato di libertà, segno che il piano di giornata non prevedeva voli pindarici né teste di ponte, ma un più tradizionale controllo-totale-sulla-corsa.
Col ritmo imposto dal martellante Laporte, i gialloneri dimostravano che, a differenza della UAE ventiquattr’ore prima, avevano le forze e la capacità di calcolo necessarie a impedire a chicchessia di intromettersi tra il loro progetto e la sua realizzazione. Nessuna speranza allora per il romantico sestetto avvantaggiatosi tra il Col de Cou e il Col de Feu (le corse memorabili passano sempre per memorabili luoghi): a turno, realizzando di aver investito le proprie risorse in un disegno senza futuro, i poveri Landa, Poels, Woods, Aramburu, Pinot e Ciccone, sbuffavano amaramente e tornavano nei ranghi.
Mai oltre il minuto e mezzo il loro vantaggio su un gruppo maglia gialla via via più snello e teso: era cominciato un conto alla rovescia verso l’istante che tutti attendevano ma che nessuno era in grado di anticipare. Chi avrebbe attaccato per primo? E dove? Un’altra caduta, intanto, sottraeva al peloton anche i doloranti Shaw e Bardet.
Ripresa la fuga, le prime rampe del Col de la Ramaz erano un rito, una liturgia del fuoco in cui la Jumbo accendeva ceri via via più solenni, nella speranza di bruciare, oltre ai propri stoppini, anche le trepidanti gambe di Pogačar. Intellegibile il piano: trasformare salite lunghe e caldo nelle migliori armi di Vingegaard, ingolfando il più possibile il motore dell'avversario. Aveva già funzionato in passato. Dopo Laporte era il turno in testa di Van Hooydonck; poi di Benoot, poi di Van Baarle, infine – a due chilometri dalla vetta – di Van Aert, la cui fiammata otteneva come risultato principale la crisi di Tom Pidcock, espulso a fine tappa dalla top-ten della generale.
Davanti erano rimasti ora in sedici, la metà di essi ordinatamente schierati in vista della disfida. Quattro contro quattro: con Vingegaard c’erano Van Aert, Kelderman e Kuss; con Pogačar, Soler, Majka e Adam Yates. All’attacco del Joux Plane, Van Aert, sfilandosi, passava il testimone a Kelderman, il quale tuttavia veniva immediatamente scalzato da Majka, alfiere della scacchiera di Pogačar, che s’intrometteva nella catena giallonera per spezzarla, o almeno incrinarne le giunture nervose.
Punto nel suo sterminato orgoglio, Wout van Aert ci regalava una delle azioni più impressionanti che ci sia capitato di ammirare in questi anni: in una spaventosa dimostrazione di indistruttibilità muscolare e mentale, risaliva il gruppetto maglia gialla e si riprendeva di forza la prima posizione, pescando chissà dove le forze per spianare pendenze in doppia cifra per qualche decina di metri ancora, quanto bastava a ricacciare definitivamente indietro Majka. Era tarantolato Van Aert, spiritato come le centinaia di abitanti dell’Alta Savoia che tra il 1857 e il 1870 furono colpiti da un’epidemia di possessioni demoniache passata alla storia come “Mal de Morzine”. Poco dopo si sarebbe autodistrutto, ma la missione era compiuta. Parità di pezzi ristabilita, strada al proprio capitano indicata: così si tiene duro.
Il tre contro tre diventava presto un due contro due, Carlos Rodríguez l’unico intruso. Vingegaard e Kuss da un lato, Pogačar e Adam Yates dall’altro. Avrebbero potuto organizzare un poker o una briscola, o continuare la partita a scacchi, ciascun re con la sua torre. Ma non c’è tempo per gli arrocchi in questo Tour: un cenno d’intesa con Pogačar spediva Yates in testa a preparare la mossa della maglia bianca, che arrivava immancabile a 3,7 dalla vetta del Joux Plane. Solita deflagrazione di watt, solita incapacità di Vingegaard di tenere l’avversario sugli scatti secchi. Geneticamente programmato per resistere, Vingegaard però non mollava.
Due chilometri di apnea, una decina di minuti di inquadrature in cui rientravano sempre entrambi, uniti da un filo invisibile impossibile da spezzare, attratti uno verso l’altro da un misterioso magnetismo: uno in primo piano, il predestinato; l’altro, l’ex danesino fragile, appena più defilato. Pogačar con gli occhiali sul caschetto, Vingegaard con lo sguardo schermato, unica differenza residua tra due re adesso nudi, equivalenti in tutto. Era una contesa da saloon, era l’Iliade. Ciascuno esibiva i suoi pregi, smascherando gli altrui difetti.
Pogačar si girava tre volte, Vingegaard si avvicinava di dieci, venti, trenta metri. Rientrava, astenendosi tuttavia dal ricambiare l’affondo se non, con successo, in vista del gran premio della montagna, dopo che due fotografi in moto avevano assorbito l’ultima pallottola esplosa da Pogačar. Se il Tour dovesse essere deciso dagli abbuoni del Joux Plane, di quelle moto riparleremo a lungo e con dovizia: ma non stasera.
Stasera celebriamo un altro splendido pareggio. Celebriamo il non banale secondo guadagnato da Vingegaard in una giornata in cui avrebbe voluto vincere il Tour, ma in cui ha rischiato di perderlo. Celebriamo il minuscolo secondo perso da Pogačar in una giornata in cui avrebbe potuto perdere il Tour, ma in cui ha rischiato di vincerlo.
E celebriamo la vittoria di Carlos Rodríguez, il solidissimo ventiduenne della Ineos che giù dal Joux Plane sfruttava un'insolitamente protratta fase di controllo tra i Rivali per raggiungerli, superarli e far sua la tappa di Morzine. Da stasera 3° in classifica generale (scavalcato Hindley), l'andaluso sintetizzava alla perfezione lo stato d’animo suo e di tutti al termine di un altro di un altro pomeriggio da mandare nello spazio: «È stato incredibile.»
Foto in copertina: Tornanti.cc