[LetteraTour, tappa 19] Il sale della terra

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Il resoconto della diciannovesima tappa del Tour de France 2023, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile oggi a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere registrandosi qui

 

Dove adesso passa il Tour, duecentoventi milioni di anni fa c’era il mare: gran parte dell’attuale Franca Contea era una distesa blu. Poi l’acqua evaporò e la nuova terra venne colonizzata dai plateosauri, colossali iguane ghiotte di piante. Il mare tuttavia non se ne andò del tutto: permase sottoforma di sale, uno strato di sale pressato sempre più in profondità ed eroso nei millenni dalle infiltrazioni di acqua piovana.

Duecentocinquanta metri sotto i fuggitivi che si giocano la diciannovesima tappa del Tour scorre acqua che contiene 330 grammi di sale per litro, quattro volte più di quella dell’Atlantico. Per secoli gli uomini e le donne di Salins-les-Bains hanno vissuto di quelle vestigia di mare: facevano risalire l’acqua in superficie, accendevano grandi fornaci per farla evaporare e ne ricavavano sale, enormi quantità di preziosissimo sale. Or blanc. Il mulino che faceva funzionare il pozzo era attivato da un fiume, e quel fiume si chiama Furieuse.

Mancano poco più di quaranta chilometri all’arrivo quando gli attaccanti costeggiano la Furieuse, che oltre a essere un fiume è anche l’aggettivo più calzante per indicare la modalità con cui, dopo un non quantificabile numero di tentativi, quegli scalmanati in bicicletta si sono conquistati l’opportunità di dare un senso tutto nuovo al loro Tour de France. Una fuga portata via con la forza, perché a tre giorni dalla fine di un Tour il ciclismo non è che conservi troppo di raffinato. Diventa questione di processi sotterranei, più che superficiali: una discesa nelle profondità di sé stessi, al limite della propria sopportazione, oltre la soglia del dolore, a verificare se è rimasto qualcosa di utile sulle pareti, scampoli di energie da raschiare coi denti e sputare sulla strada.

In trentasei erano tornati vittoriosi dalle rispettive esplorazioni interiori. Trentasei sauniers tacitamente autorizzati dalla maglia gialla e ancora una volta guidati da Victor Campenaerts, il mastro salinaio di questo Tour de France, instancabile, irriducibile, incorreggibile, completamente posseduto dallo spirito della battaglia, o forse di De Gendt. Si potrebbe dire che corresse col coltello tra i denti, se non fosse che la bocca l’aveva quasi sempre aperta, spalancata in una smorfia che in certe inquadrature pareva un ghigno, una risata beffarda contornata da due baffi alla Freddie Mercury. Rigorosamente senza occhiali, e senza un piano davvero razionale, abbandonava con larghissimo anticipo il sodalizio che aveva contribuito a fondare tre ore prima, facendo venire i crampi prima a Simon Clarke, il solo che per un po’ l’aveva assecondato nell’ennesima follia, e poco dopo pure a sé stesso. Fuori due.

Il setaccio decisivo era la Côte d’Ivory, due chilometri al 6%. Con Kasper Asgreen rimanevano davanti soltanto Matej Mohorič e Ben O’Connor. Alle loro spalle un coacervo di super velocisti, bolidi da grandi classiche, gregari extra lusso, campioni nazionali, continentali e mondiali che non trovavano pace né accordo. Ci provava Laporte, tutto solo. Ci provavano Trentin e Bettiol, in coppia. Ci provava Pedersen, tre o quattro volte. Van der Poel chiudeva su tutti ma senza convinzione, diviso tra il desiderio (l’illusione?) di giocarsela in prima persona e il compito (l’obbligo?) di favorire il suo compagno Philipsen, largamente il più veloce tra i fuggitivi, uno che è strafavorito nelle volate di gruppo, figurarsi in quelle ristrette. Intanto un campo largo mostrava il motto degli agricoltori della regione, costruito impilando decine di balle di fieno: Jura – Terre de cooperation

Altro che cooperazione: i tre di testa andavano d’amore e d’accordo, in quella precarissima comunione d'intenti che tiene vive le fughe nel ciclismo. Venti secondi di vantaggio, poi trenta. Un minuto. Non li avrebbero più presi.

Difficile mettere insieme corridori con storie più diverse delle loro, con motivazioni più complementari. Ben O’Connor era venuto al Tour come capitano dell’AG2R: doveva lottare per la classifica generale, alcuni immaginavano per lui una top-5. Invece si è staccato sulle primissime salite, così ha dovuto riciclarsi come cacciatore di tappe e gregario di lusso: 3° nella tappa di Issoire, fondamentale per il successo di Gall a Courchevel due giorni fa. Gloria individuale, nessuna. Kasper Asgreen era arrivato a Bilbao pieno di dubbi e con un compito preciso: favorire le volate di Fabio Jakobsen. Ma Jakobsen è caduto e si è ritirato, lui si è ritrovato libero e ieri è riuscito a vincere una tappa. Il bis sarebbe un capolavoro assoluto. E poi Matej Mohorič, ventott’anni ma professionista da quasi un decennio, già due vittorie alla Grande Boucle ma non quest’anno: quest’anno ce l’hanno fatta altri due della Bahrain (Bilbao e Poels), lui ci è andato vicino il giorno del Puy-de-Dôme (3°) e dio solo sa quanto ci terrebbe a lasciare il segno, a farlo qui e ora.

O’Connor lanciava il suo sprint senza speranza a 400 metri dall’arrivo. Asgreen e Mohorič lo saltavano a pie’ pari prima di gettare ciascuno la propria bicicletta verso la linea, Mohorič una frazione di secondo prima di Asgreen, quanto bastava per apparire davanti al danese nel fotogramma necessario a determinare l’ordine d’arrivo. Un attimo prima Asgreen gli era davanti; un attimo dopo, anche. Mohorič l’aveva sopravanzato per un tempo minuscolo, una finestra che si era aperta e richiusa immediatamente e in cui lui si era infilato con precisione chirurgica, come solo uno dei corridori più scientificamente abili del gruppo potrebbe. 

Questo è Mohorič: una specie di supercomputer ciclistico, un’idrovora di curiosità, un pozzo di conoscenza pratica e teorica. Libri, documentari, enciclopedie. Legge qualsiasi cosa, si chiede il perché di tutto, memorizza particolari impossibili: dei percorsi delle classiche è in grado di ricordare persino le fermate degli autobus di linea a bordo strada. Uno dei suoi primi soprannomi: Matejpedia. Se non fosse stato per il ciclismo avrebbe studiato ingegneria all’Università di Lubiana, vocazione che un anno fa, per mezzo della famosa sella telescopica, lo aiutò a vincere la Milano-Sanremo.

La sua unica missione, su e giù dalla bici, è cercare di essere la versione migliore di sé stesso, senza alcun compromesso al ribasso né contraddizioni. Per Matej Mohorič la realtà è un continuum, e lui la osserva con mente analitica ma cuore aperto, miscelando calcolo e sensazioni, numeri e parole, e per tutti questi motivi l’intervista che ha rilasciato dopo il traguardo di Poligny, liberando il furioso flusso di emozioni che gli scorreva dentro dal giurassico, si è rivelata una serie di riflessioni sul ciclismo e sulla vita tra le più dense a nostra memoria. Quattro minuti di monologo o quasi, in cui le domande erano un pretesto e le risposte un manifesto.

Affermava Mohorič che il ciclismo è uno sport crudele. Non duro, non difficile: crudele. È la spietatezza la cifra di uno sport che chiede tutto e spesso restituisce niente, in cui realizzi che il buono che hai fatto non basta quasi mai, che forse non hai titolo a star lì, che altri centocinquanta come te hanno fatto gli stessi sacrifici, le stesse rinunce, e meriterebbero di vincere almeno quanto te.

Parlava con riconoscenza dei meccanici e dei massaggiatori, con somma stima degli avversari: di Asgreen che è incredibilmente forte, di O’Connor che aveva collaborato pur sapendo che quasi certamente avrebbe perso. Spiegava la sensazione orribile di aver tradito tutti e due, vincendo. A metà discorso citava Gino Mäder, e il suo eloquio sicuro s'incrinava ricordando quel fratello minore che una volta aveva definito troppo buono per questo mondo, e che durante la sesta tappa del Giro d'Italia 2021 un'altra fuga  aveva prima scortato in discesa, poi lanciato verso la vittoria: «Gino non credeva in sé stesso, ma io non gli lasciai altra possibilità».

Infine diceva essere felice per il suo ritorno al successo, orgoglioso anzi, ma lo diceva tra le lacrime, come se dentro di lui abitasse una specie d'inestirpabile senso di colpa, perché – concludeva – tutti dovrebbero avere la possibilità di vincere una tappa al Tour de France, ma non si può. Vincere cambia la vita, è il sale della terra. È privilegio solo di alcuni, però: per fortuna, non troppo di rado, di quelli come Matej Mohorič.

 

 

Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

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