Sulla strada del primo bacio
Nel primo episodio di “Bidon collé”, la rubrica aperiodica in cui ci confrontiamo con i narratori del ciclismo, abbiamo incontrato Gianni Mura, punto di riferimento assoluto del giornalismo italiano.
Una cartina della Francia spiegazzata. Un pacco di sigarette. Un libro di Marco Ballestracci e uno sulla cultura del pane. Un pc di qualche anno fa, aperto ma in standby. Qualche pagina di quotidiano, una marea di appunti, pile di fogli. In cima alla più centrale di esse, il nostro microfono. Manca una sedia, la va a prendere personalmente dalla stanza accanto. Possiamo cominciare.
GM: Questa registrazione ve la tenete voi per le notti d’inverno o va in onda?
B: In realtà pensiamo di tirarci fuori un articolo molto lungo. Poi, certo, durante qualche notte di disperata solitudine può essere che la tiriamo fuori.
Va bene allora, iniziamo. Ho visto che avete otto cartelle di domande…
Ma no, è solo qualche linea guida. Pensavamo di chiacchierare abbastanza liberamente, partendo dalla contingenza più ingombrante: chi vince il Tour 2016?
Se è un po’ più sveglio dell’anno scorso, lo vince Quintana, che però con la storia di dire “mañana, mañana, il Tour non è finito qui”… Forse avrà imparato qualcosa da questo, altrimenti c’è l’inglese meccanico. E poi non so come stia Contador. In questo trio dovrebbe trovare il modo di inserirsi Aru, che però io non ho mai visto in faccia e non so che effetto mi fa. O magari posso prepararmi al fatto che lui e Nibali litighino già dal primo giorno perché uno fora e l’altro non lo aspetta.
E i francesi?
Bardet è simpatico, Pinot è più forte. Anche se il più forte di loro è quel disgraziato di quarant'anni che continua a cadere (Peraud, ndb), che però stavolta non ci sarà.
Facciamo un gioco: oggi parti per il tuo primo Tour de France. Come ti comporti?
Credo che non partirei, se fosse il primo. Direi: non me ne frega un cazzo. Siccome è il 30° ci vado, anche per fare cifra tonda, perché poi non si sa mai. No, in realtà ci vado anche perché c’è sempre qualcosa da scrivere, che non puoi prevedere prima. Il Tour è questo: partire sapendo che avrai sempre da scrivere qualcosa, ma non si sa come né quando. Può essere una caduta, può essere la crisi di uno che si ritira dopo quattro giorni, può essere Nibali che prende a pompate Aru, non lo so.
Allo scorso Giro Nibali ci ha fatto divertire un bel po’.
Sì, il giro degli imprevisti, cioè, diciamolo chiaramente: una botta di gran culo (nel senso fisico del termine, ndb). La caduta, lui che si riprende e fa l’impresa, il beau geste dei genitori di Chaves al traguardo che ha restituito al ciclismo un po' di quell’umanità persa e siamo tutti contenti. Però è il Tour la cartina al tornasole. Molti dicono: “a te sta sulle palle il Giro”. Non è vero, il problema del Giro è che è in maggio, e a maggio c’è ancora il campionato, e c’è ancora la Champions, e per il mio giornale è più importante che io faccia il calcio.
Una volta hai detto: “Se fossi il direttore di un giornale non farei una pagina sui pomodori nell’agro campano, ne farei dieci. Manderei qualcuno per tre settimane, gli darei molte più pagine, ci manderei quattro giornalisti e un fotografo”. Cosa faresti da direttore di un giornale sportivo, prima delle tre settimane del Tour?
Le spedizioni italiane al Tour sono sempre più rarefatte, ci sono quotidiani che sono decenni che non mandano nessuno. O ritengono che sia troppo costoso o pensano che non freghi a nessuno o ritengono che basti la tv, e questo è il rischio del giornalismo scritto, nel ciclismo più che in altri sport. Però vale lo stesso per tutto: perché mandare qualcuno in Inghilterra a commentare la Brexit? Ecco, i notisti politici esistono ancora, ma sono spariti i coloristi del ciclismo. Eppure in una corsa come il Tour, con 200 corridori, vuoi che non si trovi nulla da raccontare per venti giorni? Durante i grandi giri possono nascere grandi racconti.
Difatti la storia del racconto del ciclismo è piena di autori importanti.
Il ciclismo è stato sempre lo sport in cui il racconto era privilegiato. Motivo uno: i giornali mandavano un raccontatore, la penna buona che ti raccontava Carlo V e l’omelette col formaggio. Gente come Buzzati, Pratolini, Ortese, Gatto, Raschi che affrontava il racconto della corsa in un modo diverso. Adesso questo tipo di inviato non c’è più.
Perché mancano gli inviati?
Perché non sono stati invogliati a procreare. L’inviato di ciclismo di questo tipo è un po’ come il numero dieci nel calcio. In più, di suo ha avuto una diminuzione d’acqua in cui nuotare, perché il secondo discorso è che un tempo c’era un rapporto molto forte tra giornalista e corridore, fatto di amicizie con meccanici, massaggiatori, persone che potevano farti capire come stavano le cose prima di una tappa alpina, potevano dirti se qualcuno aveva la dissenteria. Questo è scomparso, ed è paradossale: c’era più comunicazione quando mancavano i telefonini.
Come funzionava la comunicazione, senza i mezzi di oggi?
Gli alberghi erano tutti vicini, tutti nei pressi delle stazioni ferroviarie. A volte erano degli scannatoi, o dei pulciai. I ciclisti andavano a dormire presto, non avevano internet e playstation. Trovavi in giro i direttori sportivi che bevevano una birra e cercavi di capire se avessero in mente un piano per il giorno dopo, perché dopo te lo dicono tutti che avevano un piano, quando ha funzionato, ma la sera prima un po’ meno. E la giornata si riempiva così, con molta vicinanza, senza addetti stampa e uffici stampa, che io giudico invenzioni nefaste. C’è stata un po’ di calcistizzazione del ciclismo, e secondo me non gli ha fatto bene.
E con i ciclisti come parlavi?
Andavo negli alberghi dopo la tappa, prima che cenassero. Che Merckx fosse nella vasca da bagno o gli stessero facendo un massaggio non cambiava un cazzo, parlava lo stesso, e così era più semplice per tutti e due. A me manca solo la stanza di Anquetil e poi le ho fatte tutte. Ma lui era difficile, oggettivamente, ci andava solo qualche francese. Era freddo, professionale, dovevi essere del suo giro. Il povero Pou Pou (Poulidor, ndb), invece, quante volte! Era ovunque così, comunque: non c’era gente ad accalcarsi né poliziotti, sapevi molte più cose, anche sui gregari. Spesso i gregari hanno storie molto belle, che non racconta più nessuno, a meno che non vincano una tappa.
La stanza in cui è stato più piacevole entrare?
A me divertivano molto gli spagnoli, sempre sopra le righe, si esprimevano come se scrivessero un’ode. Ocaña più di tutti. Ma anche Merckx mi ha dato soddisfazioni. Mi ha pure chiesto qualche sigaretta… Posso dirlo: Merckx durante le corse fumava, ma di nascosto.
E non solo lui, a quanto pare.
Non solo lui. Bartali e Nencini soprattutto. A Bartali piaceva. Diceva che gliel’aveva suggerito il medico per rompere il fiato. Non vedo come, tra l’altro. Ma poi la usava come provocazione, soprattutto nei confronti di Bobet. Lui era sensibilissimo, un Bugno ante litteram, vedeva due gocce di pioggia e si bloccava. Allora Bartali si presentava al raduno con queste sigarette senza filtro e gli faceva: Louison, oggi facciamo i conti! Gli sbuffava in faccia e Louison si cagava addosso.
Se avessi la possibilità, oggi, di entrare in una camera e fare una chiacchierata di mezz’ora sul lettino del massaggiatore chi andresti a cercare?
Con Nibali ci ho parlato abbastanza, Froome non mi interessa, Contador già fatto, Quintana mi farebbe incazzare. Per curiosità, perché non lo conosco, Aru. Se invece avessi voglia di divertirmi e di fare un pezzo a cazzo andrei da Sagan, perché uno così da solo tiene su un terzo di ciclismo. Questo è forte davvero, con allegria, con spavalderia, non si lamenta mai, vince un mondiale con due gregari, perde come un pirla volate che ha già vinto…
A dimostrazione che si possono trovare storie da raccontare anche in un ciclismo di poche imprese e grandi attese.
Il materiale umano c’è sempre, ma forse è meno interessato a raccontarsi. Una volta l’unico collegamento tra atleta e opinione pubblica era una cosa stampata che tu aprivi al mattino e leggevi: il giornale. La televisione c’era solo nei grandi eventi. Oggi conta che ci sia il tabellone con gli sponsor dietro di te mentre ti faccio l’intervista, tu puoi essere del New York Times o di Radio Rho, è uguale. Io che faccio un’intervista di mezz’ora a uno che mi racconta la sua storia non ho nessun valore commerciale. “Ma tu sei una firma!”. Certo, ma lo sappiamo io e te, forse nemmeno il corridore, che guarda l’orologio perché deve andare a fare le sue cose. I grandi racconti di cui sono pieni quegli armadi si estinguono come i dinosauri, a forza di essere spinti nell’angolo dalla televisione e dai tweet.
Quindi veniamo alla domanda centrale di questo incontro: stiamo facendo una cazzata clamorosa a impegnarci per proporre questo modo di raccontare il ciclismo, oggi?
No, chiunque abbia idee non censurabili non va scoraggiato, partiamo da qui. Se poi mi chiedete cosa potreste fare, beh, se volete raccontare delle storie di ciclismo vi consiglierei di fare l’alto e il basso, come si può fare su internet.
Sarà una questione d’età, ma noi siamo convinti che ci sia davvero qualcosa da salvare nel ciclismo del 2016. Quantomeno abbiamo l’impressione che sia più credibile.
Beh rispetto agli anni ’90 di sicuro gira meno roba. Ma poi scopri il motorino nascosto, che è peggio del doping…
Come ci difendiamo noi da tutto questo, quando ci emozioniamo per una cosa che poi eventualmente scopriamo essere finta?
Non abbiamo alcuna difesa. È un discorso che mi è costato fare nel dopo-Pantani, nel dopo-Campiglio più che nel dopo-morte. Ho ricevuto messaggi di lettori non dico incazzati ma certamente critici: “Ci hai insegnato a volergli bene, adesso cosa facciamo?”. Io ho anche pensato di smettere di seguire il ciclismo, per una questione di disagio professionale. Poi l’ho superata, pensando che comunque quelli che becchi li becchi o attraverso intercettazioni telefoniche o indagini della polizia o analisi di laboratorio, e il mio mestiere non mi autorizza a nessuna di queste tre cose. Io sarò sempre in ritardo su un eventuale antidoping. Il giornalista che oggi segue il ciclismo può fare due figure: o quella del complice, cioè quello che sa tutto però sta zitto perché l’importante è che marci il sistema, o quella del coglione, perché era li e non si è accorto di niente. Nessuna delle due è simpatica, specie a una certa età, ma non so cosa farci. D’altra parte già ai tempi di Merckx, Ormezzano scrisse che sotto ogni pezzo bisogna mettere la scritta SCAP: Salvo Controllo Antidoping Positivo.
Cosa ne è allora di quelle emozioni?
Io delle emozioni che mi ha dato Pantani e che ho cercato di mettere in pagina e di trasmettere a chi non era lì non rinnego mezza virgola. L’emozione tu la vivi, dopo di che è facilissimo far le bucce al Papa, figurarsi a me. Ma non si può stabilire una data di scadenza all’emozione. Si può mettere una data di scadenza all’innocenza, ma non all’emozione. Una volta erano di più anche le emozioni, però, questo è il fatto. Questo tipo di corsa sembra quasi precotta. Le tappe del Tour o del Giro sono quasi sempre che parte una fuga di sette, di cinque o di quattro al chilometro 3 e li prendono a 10 dall’arrivo. A volte a 5, a volte anche a 1, a volte non li prendono e io godo come un riccio, ma normalmente è così: libera uscita e ti vengo a prendere. Mi sembra che un tempo ci fosse una corsa molto più libera per le fughe, quelle serie.
Forse mancano i grandi fuggitivi?
Mancano i grandi fuggitivi perché i napoleoncini dell’ammiraglia han deciso che devono tutti fare da parafango, paracarro, chioccia o portaacqua al capitano. È dovuto anche al fatto che tutti vogliono stare davanti. Una volta i capitani per tre quarti di tappa stavano dietro a farsi i cazzi loro.
In tema di fuggitivi, noi l’anno scorso ci siamo innamorati di Rubén Plaza.
Io di De Marchi, due anni fa.
C’è da dire che una volta erano anche disegnate diversamente le tappe.
Erano disegnati diversamente gli uomini.
Ma non è che le grandi imprese riescono meno perché semplicemente sono tutti più puliti? Cioè: un ciclismo meno spettacolare ma più vero non è forse meglio di uno tutto fuochi d’artificio ma finto?
Vorrei che fosse giusta questa equazione: una corsa più lineare ma tutti più puliti. In effetti il ciclismo si è appiattito, alzandosi il livello medio. Fare il vuoto è più difficile. Penso sia anche una questione psicologica: il ciclismo nasce per vedere quelli che vanno in fuga, sennò che palle, è come vedere Galles - Irlanda del Nord. Capovolgo l’equazione: questo è un ciclismo meno incline alle fughe forse anche perché tutti credono di averne di più e si tengono da parte per il finale. Vado in fuga perché magari la Madonna guarda giù e stavolta mi va bene, dietro inseguono a 55 all’ora anziché a 60 e vinco la tappa. O può darsi che tutti aspettano perché gli han detto di aspettare.
Non ci sembra tu abbia grande fiducia nei direttori sportivi.
Ne ho molto poca. Io forse ho una visione tra il romantico e il facilone del ciclismo, anche perché sono cresciuto in un altro ciclismo e ho parlato con gente che ha conosciuto il ciclismo prima ancora. Mi è sempre sembrato uno sport davvero semplice; molto faticoso, ma estremamente semplice. Quasi sempre una corsa ad eliminazione, con i ruoli di partenza chiari. Questi sono i capitani e questi sono i vice, quelli che una volta si dicevano scudieri, anche se è una parola che non mi piace, e gli altri sono carne da cannone. Per cui fino a metà corsa giocano quelli condannati a non fare la seconda metà, poi man mano restano i grandi e si danno grandi bastonate tra loro finché uno vince. Questo era. Però si davano botte veramente. Adesso ci sono attacchi fatti quasi sempre agli ultimi 2 km dell’ultima salita, se c’è l’arrivo in salita, ed è come se fossero neutralizzati due terzi di corsa, presumo perché ci sono strategie sottili che non riesco a capire. Ma so per certo che una categoria di sportivi che accetta di gareggiare con quest’affare nell’orecchio è destinata a ragionare sempre meno con la sua testa, ed è avviata su una strada di robotizzazione, per cui parlare di popolarità di questo o di quello diventa anche abbastanza difficile.
Però dopotutto continui ancora a seguirlo, questo ciclismo…
Se io continuo a seguire al ciclismo è per un attaccamento al passato più che al presente. Cioè, mi ha dato talmente tante emozioni… È come uno che ha dato il primo bacio al ponte della Ghisolfa e allora ci torna, ogni tanto, al ponte della Ghisolfa. Io torno al Tour.
Speri in un altro bacio?
No, al massimo mi manda un’email, il Tour. Dubito ci possa essere un contatto fisico.
Dove va questo ciclismo?
Sono vent’anni che sento dire che il ciclismo è morto, ma anche negli anni neri le strade erano piene di gente. Però, per migliorare, il ciclismo deve guardare indietro.
Cos’è che l’ha salvato e che continua a salvarlo?
La sua vitalità, perché nonostante tutto riesce ad attirare non solo un 10% di idioti con le parrucche e le corna da vichingo che cercano di dare le manate sulla schiena ai corridori, ma anche un sacco di gente normale che sente il fascino di questi uomini. Io ero molto amico di Alfredo Martini, nonostante la differenza d’età, e una volta ho iniziato un’intervista chiedendogli “se io dico ciclismo quali sono le prime due cose che ti vengono in mente?”. E lui mi ha detto: libertà e speranza. Erano risposte giuste quando correva lui, ma adesso non so… Libertà sì; speranza un po’ ammaccata forse. Però sì, credo che alla fine stiano ancora in piedi tutt’e due.
Ti diverti ancora, in fin dei conti.
Pazzamente. Mi diverto più in luglio che in tutti gli altri undici mesi a scrivere di calcio, questo è fuori di dubbio.
Il posto migliore dove mangiare in Francia?
Domanda sbagliata.
Ti sei fatto un piano logistico-organizzativo per le prossime tre settimane?
Non so neanche dove dormo, non ho nemmeno un albergo. Appena passata la frontiera comincio a pensarci. Mi piace improvvisare.
Lo vedi, allora: qualcuno che improvvisa al Tour c’è ancora, per fortuna.
Questa mi sembra un'ottima chiusura.
“Ci sono macchine che informano sui battiti cardiaci, sulla potenza espressa in salita, sulla soglia della fatica. Non ci sono più corridori che fumano o che bevono vino rosso al Tour. Sono tutti programmati, pesati, monitorati, guidati via radio o istruiti dal computer sul manubrio. Non ci sono, ed è un bene, macchine che misurino la dignità, la costanza, la serietà, la capacità di sacrificarsi, il coraggio e la fantasia. Non ci sono macchine che danno la proporzione dei sogni che si sognano da bambini o da adulti. Ed è un bene che non ci siano, perché tutte le cose che ho elencato le possono valutare solo gli uomini, se vogliono, e gli uomini si sa che possono sbagliare, ma almeno hanno un vantaggio sulle macchine.” (Gianni Mura)