[Van Aert] Inveire contro la sorte

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Il ciclismo è uno sport spietato, lo sappiamo. La regola su cui si fonda, il principio che precede qualsivoglia disquisizione tecnico-tattica è quello fisico dell’equilibrio, l’equilibrio arioso, liberante, poetico eppure drammaticamente precario sempre sottinteso all’andare in bicicletta.

È inevitabile che i ciclisti scivolino, ruzzolino, sbandino, rovinino, capita loro spesso e senza distinzione censuaria: cadono gregari e fuoriclasse, velocisti e scalatori, giovani e veterani, un perpetuo democratico caotico capitombolare che presto o tardi riguarda tutti. 

La caduta che questo pomeriggio, a settanta chilometri o giù di lì dall’arrivo della Dwars door Vlaanderen, ha coinvolto Van Aert (e Pedersen, Stuyven, Girmay e un’altra dozzina di contusi) non ha avuto di per sé una dinamica originale: è stata provocata della solita ineffabile emulsione di errore e sfiga, non si sa bene dove finisca uno e dove inizi l’altra, alla fine non importa quasi mai.

Van Aert ha urtato la ruota di Benoot mentre il compagno rilanciava l’andatura, sembrerebbe, di lì il patatrac. Se ce ne ricorderemo, e se la stiamo già inquadrando come di uno degli eventi-chiave dell’anno ciclistico in corso, è perché questa caduta ha frantumato d’un tratto la clavicola, lo sterno, diverse costole e i sogni di uno dei campioni di riferimento di quest’epoca, un sommo sacerdote del ciclismo moderno - e distruggendo i suoi, ha inevitabilmente compromesso alcuni dei nostri. 

Wout van Aert non correrà né il Giro delle Fiandre né la Parigi-Roubaix, i grandi obiettivi della sua stagione e se è per questo di tutta la sua carriera, le due corse per le quali sembra essere nato e che non è mai riuscito a vincere. Aveva impostato il suo 2024 con quelle due ossessioni in testa, quelle due e non molte altre, e si è sfracellato a quattro giorni dalla prima di esse.

Ferocia del destino, perfidia degli dèi del pedale, questi goliardi di cattivo gusto che sembrano aver eletto Van Aert a loro bersaglio favorito, sottoponendogli prove via via più sovrumane e cercando di capire se il belga ricordi loro più Ercole o Sisifo.

Certo non è detto che sarebbe riuscito nell’intento, anzi i precedenti e lo stato di forma di Mathieu van der Poel suggerivano che sarebbe stato questi – insieme a Pedersen – l’uomo da battere sia al Fiandre che alla Roubaix. Se il forfait di Van Aert ci affligge, se il suo pianto singhiozzato emerso dalla tv ha arpionato qualcosa di profondo dentro di noi, è perché poche cose nella vita ci tormentano più del rimpianto. 

Quel che resta di questa primavera ciclistica troverà comunque il modo di intrattenerci, non v’è dubbio. Ma ci siamo persi due sfide tra Van Aert e Van der Poel nelle loro corse preferite all’apice delle rispettive carriere, due confronti che tutto lasciava intendere sarebbero stati memorabili, e che nessuno ci restituirà.

Ne verranno di nuovi (i due non hanno ancora trent’anni), Van Aert tornerà protagonista prima di quanto immaginiamo, probabilmente più forte. Però noi avevamo bisogno di lui adesso, ne avevamo egoisticamente bisogno per continuare a credere in una qualche risurrezione, per non farci mancare la portata più succulenta del lauto banchetto che è il ciclismo contemporaneo, una delle poche cose belle in questo mondo orribile che ci è toccato.

La rivalità tra Van Aert e Van der Poel è stata una sorta di big bang per questo sport, l’apparizione che ha messo in moto la rivoluzione, e non sorprenderebbe se stasera il più triste dopo Van Aert fosse proprio Van der Poel, che dal dualismo col belga trae alimento, che è consapevole che – sebbene da un paio d’anni lo batta quasi sempre – le sue vittorie valgono di più, quando si lascia alle spalle l’Altro.

Il ciclismo è uno sport spietato, lo sappiamo, ma a volte vien proprio voglia di emendarle, certe sue leggi, e inveire contro la sorte.

 

Testo: Leonardo Piccione.

 

 

 

 

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