[Kings of Bidons] Reto Hollenstein

Un secondo posto al Giro del Belgio, un quarto ai campionati svizzeri in linea, un altro secondo ai campionati svizzeri a cronometro. In undici anni di professionismo questo è il meglio che Reto Hollenstein è riuscito a mettere insieme a livello di risultati. Non ha mai vinto una corsa, ma questo è un dettaglio che non sembra turbarlo più di tanto: «Conosco i miei limiti e so quello che posso fare. So che sono in grado di rendermi utile in molti modi, non per forza vincendo o facendo qualcosa di speciale».

Hollenstein, 1 metro e 97 di passista, è una sorta di gigantesca incarnazione dell’idea di pacatezza: «La cosa più importante, per me, è ricavare soddisfazione da quello che mi riesce di fare». La sua parola preferita è “easy”: Reto è rilassato nello stile e nelle risposte, che snocciola con la schiena comodamente poggiata sul lunotto di un’ammiraglia. È altissimo anche così. «Questo clima di serenità è merito soprattutto del Giro. Qui non è come al Tour, dove tutto è pressione, pressione, pressione. Trovo sia piacevole gareggiare in Italia, anche se il ricordo del mio primo Giro non è che sia proprio positivo…»

Nel 2012, al suo esordio in una grande corsa a tappe, Hollenstein si ritirò durante la 13a tappa: clavicola fratturata. Da allora ha corso quattro Tour e una Vuelta, e dopo sette stagioni è tornato al Giro. Ovviamente da gregario: «Nove borracce per carico di solito, da ripetere più volte a tappa. Di meno durante le tappe di montagne, perché in quei casi ci sono gli addetti della squadra in cima alle salite a rifornire i capitani. Inoltre io soffro in montagna, nonostante venga dalla Svizzera…» In montagna la solitudine del ciclismo raggiunge la condizione di massima somiglianza con quella del tennis, una delle passioni di Reto: «Roger Federer è un idolo. La grande differenza tra tennis e ciclismo sta nel fatto che il primo è uno sport totalmente individuale: tu sei la squadra di te stesso. Nel ciclismo invece sei sempre parte di qualcosa di più grande di te. La condivisione è un valore fondamentale, nel ciclismo».

Oltre che della Katusha-Alpecin, Hollenstein è parte di una famiglia: «Ho una moglie, Patrizia, e un figlio, Livio. Livio compirà quattro anni a giugno e ancora non riesce a capire perché io mi assenti così spesso. Ogni volta mi chiede ‘Papà, quando torni a casa?’. Gli manco, e lui manca a me. I grandi giri da questo punto di vista sono difficilissimi». Come si fa a conciliare ciclismo e famiglia? «Per prima cosa Patrizia è straordinaria. Poi io quando sono a casa cerco di adeguarmi: esco ad allenarmi presto al mattino, in modo da poter essere di più con Livio il pomeriggio. È il massimo che posso fare». Reto Hollenstein, 33 anni e zero successi, non si allena per vincere: «Anche se dentro di me sogno di farcela, un giorno». E gli va bene così: «Sono profondamente felice di quello che ho e di quello che faccio». (LP)

 

 

 

 

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