[LetteraTour 2024, Tappa 14] A che pensi, Tadej?
Il resoconto della quattordicesima tappa del Tour de France 2024, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere invece iscrivendosi qui.
«A che pensi, Tadej?». Glielo chiese a scuola un’insegnante, anni fa, vedendolo distratto, assente, lo sguardo calamitato dal paesaggio che l’attendeva oltre la finestra. «Penso al percorso che farò oggi pomeriggio in allenamento», rispose lui ragazzino, pregustando una nuova partita a quello che era diventato il suo gioco preferito, e che richiedeva soltanto una bicicletta e un certo numero di su e giù. Erano soprattutto le salite a intrigarlo – e come poteva essere altrimenti? Sua madre Marjeta si era trasferita a Komenda da una località chiamata Gora, in sloveno “montagna”; il padre Mirko dal paesino di Klanec, che sta per “collina”.
«A che pensi, Tadej?». Gliel’ha chiesto oggi pomeriggio Adam Yates a otto chilometri e mezzo dall’arrivo della tredicesima tappa del Tour, notandolo più irrequieto del solito, negli occhi il fuoco che gli si accende ogni volta che ha un’idea delle sue. «Penso che tra poco dovresti attaccare», ha risposto Pogačar a Yates. «In che senso?», ha replicato Yates con moto di sorpresa, facendo notare al capitano che il piano delineato al mattino era diverso: «Non s’era forse detto di stare un po’ più calmi, oggi?».
Il conciliabolo è andato avanti per due o tre minuti, il tempo occorso a Pogačar per convincere il suo grimaldello preferito che quella fosse la cosa migliore da fare, la mossa che avrebbe massimizzato il bottino che era convinto di poter portare a casa al termine del primo round pirenaico. Derivava, questa sua sicurezza, da un mix di competenza tattica e puro istinto; un amalgama di pensiero, occhio e carattere che, unitamente alla capacità di rispondere colpo su colpo alle avversità, è il tratto distintivo dei fuoriclasse totali.
Sapeva, tanto per cominciare, che l’inferiorità della Visma in salita concede un certo spazio di manovra. Vingegaard aveva accanto a sé il solo Jorgenson in quel momento, e il solo Jorgenson non sarebbe stato in grado di chiudere su Yates, lasciando senza opposizione il tentativo dell’inglese di isolarsi dal gruppetto maglia gialla.
In secondo luogo, era consapevole che le pendenze non impossibili della parte finale della salita verso Pla d’Adet si confacevano molto più a sé che alla sua nemesi. Forse aveva anche intravisto nel danese dei piccoli segnali di difficoltà, di minore brillantezza, o semplicemente si sentiva così bene da ritenere che non ci fosse verso che l’avversario stesse vivendo una giornata migliore della sua.
Era infine convinto della non negoziabilità della sua idea di ciclismo, a cui riteneva di dover rimanere fedele. Se avesse atteso le ultime centinaia di metri o addirittura la volata, accontentandosi del misero premio degli abbuoni riservati al vincitore, avrebbe confermato l’ipotesi che in lui stesse attecchendo il dubbio, che ancora una volta Vingegaard avesse gioco facile nella demolizione delle sue certezze. In sintesi che, passando alla difesa, stesse simbolicamente cominciando a perdere il Tour.
Invece c’è, in Pogačar, una coerenza radicale, un’aderenza al proprio modo di essere e di pedalare che talvolta sfocia in cocciutaggine, ma che è anche, da sempre, l’origine dei suoi successi più abbaglianti. In un aneddoto ormai leggendario, si racconta che alla vigilia del Trofeo Città di Loano 2015, la prima gara internazionale della sua carriera, il giovane Pogačar desiderasse sapere solo una cosa dal suo team manager Andrej Hauptman, e questa era la distanza tra l’ultima salita e il traguardo. Era al suo primo anno da juniores, ma aveva ben chiaro in mente quale fosse il suo destino: attaccare.
Senza questionare più di tanto i desiderata di Pogačar, a 7,2 chilometri della meta Yates dunque allungava, andandosene tutto solo. Non aveva ancora completamente compreso, in quel momento, le intenzioni del suo leader. «La verità è che con Tadej non sai mai cosa aspettarti», ha confermato in un’intervista nel post tappa. I puntini si sarebbero uniti molto presto.
La maglia gialla si muoveva a sua volta quando mancavano 4,6 chilometri metri al traguardo, là dove iniziava il segmento meno duro della salita. Come da previsioni, Vingegaard non era in grado di pareggiare la sua esplosività. Contro le previsioni, il campione in carica dava l’impressione di essere molto meno a suo agio del solito: si guardava alle spalle due volte, cercando di capire se Jorgenson potesse dargli una mano o meno. Non poteva.
Era piuttosto Evenepoel a rimanere insieme a lui: ma nemmeno Evenepoel era in grado di dare alcun cambio a Vingegaard, compito che invece, più su lungo la strada, riusciva benissimo a Yates con Pogačar. Dopo aver atteso l’arrivo al galoppo del suo capitano, Yates gli si piazzava dinanzi per cinquecento metri abbondanti, scandendo un ritmo che consentiva alla coppia UAE di superare a doppia velocità l’ultimo superstite della fuga di giornata, un Ben Healy generosissimo ma sfinito, col capo inclinato persino più del solito, un po' come quando, in seguito a una lunga nuotata in mare, si cerca di favorire la fuoriuscita dell’acqua rimasta nell’orecchio.
Più che in termini di secondi accumulati sugli avversari, il contributo di Yates alla causa si rivelava fondamentale grazie alla piccola pausa offerta a Pogačar, un paio di minuti perfetti per rifiatare prima del cambio di ritmo decisivo, avvenuto quando mancavano quattro chilometri all’arrivo. Si realizzava in questo modo il "piano b" architettato dal folletto sloveno per correggere il tiro rispetto all'azzardo fallito il giorno del Massiccio Centrale. Un arrivo in volata, sì: una volata solitaria lunga quattromila metri.
Ed era proprio in quest’ultimo tratto che il divario tra i rivali aumentava, si dilatava più del previsto mentre Pogačar confermava la legge secondo cui più si rende conto di essere irraggiungibile più si esalta, e più si esalta più accende la folla che si apre al suo passaggio, e che lo sollecita a sua volta, un fenomeno che in fisica si chiama risonanza e che produce come esito la progressiva amplificazione dell’oscillazione di un sistema vibrante.
Oscillavano fino a 39 secondi – 43 includendo gli abbuoni – le lancette del guadagno di Pogačar su Vingegaard, che questa sera si ritrova con 1 minuto e 57 di ritardo dalla maglia gialla. A poco vale che abbia guadagnato la seconda posizione in classifica generale, scalzando un Evenepoel ora terzo a 2 minuti e 22 da colui che ha ribaltato di nuovo a suo favore l’inerzia di questo Tour.
Che sia questo l’indirizzo definitivo della Grande Boucle 2024 non è ancora certo, ma è possibile. Con la sua intelligenza tattica – sebbene lui preferisca parlare di gambe – Pogačar ha reso molto più lampante di quanto non fosse ventiquattr’ore fa la doppia vulnerabilità che affligge Vingegaard in quest’edizione.
Una individuale, legata alle lacune di una preparazione che ha tra le sue conseguenze un’alternanza di giornate buone e altre meno buone, come stiamo vedendo; e una di squadra, una squadra in cui l’assenza del factotum delle salite che è Sepp Kuss pesa ogni giorno di più. Sarebbe stato lui l’uomo Visma preposto oggi a spegnere sul nascere la mossa di Yates: e privare Pogačar di quel trampolino avrebbe forse mascherato un po’ meglio le difficoltà di Vingegaard, emerse così nettamente nel finale.
La UAE, al contrario, sembra al momento pagare molto poco l’assenza di Ayuso, e si gode – oltre al già citato Yates, e a un Almeida ancora 4° in classifica – un Politt in stato di grazia, capace di portarsi a spasso il peloton per tutto il Tourmalet e per buona parte dell’Hourquette d’Ancizan. Per convincerlo a cedergli il posto in testa al gruppo, Marc Soler gli ha dato un colpetto sulla schiena, come se lo stesse rassicurando riguardo della missione compiuta, o se stesse cercando il tasto OFF.
Vingegaard garantisce ad ogni modo che la battaglia non è finita. Domani il percorso arride a lui: la tappa è lunga, le montagne in programma tra le più arcigne dei Pirenei, questa catena che infilza il cielo e che ci dirà se nell’empireo di questo Tour c’è ancora posto per due inquilini.
Foto in alto: ASO / Tour de France.