[LetteraTour 2024, Tappa 18] Solo cieli azzurri
Il resoconto della diciottesima tappa del Tour de France 2024, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere invece iscrivendosi qui.
Per uno che si è rotto tre volte la clavicola in otto mesi, una foratura parrebbe una disgrazia secondaria. Oscar Onley, ventunenne scozzese della DSM, sta correndo il Tour con una staffa e una vite a tenergli insieme la clavicola che si è fratturato in aprile all’Amstel Gold Race, che è la sinistra, ma anche la destra gli ha dato i suoi bei grattacapi: rotta all’inizio della Vuelta dell’anno scorso, il suo primo grande giro in carriera, poi di nuovo alla Cadel Evans Great Ocean Road Race 2024, una delle primissime corse di questa stagione.
Per tutti i ciclisti, ma per Onley un po’ di più, le clavicole sono Oggetti fragili, come il titolo di una delle opere di divulgazione di Pierre-Gilles de Gennes, premio Nobel per la fisica nel 1991 cresciuto a Barcelonnette e considerato il padre fondatore degli studi sulla “materia soffice”, cioè sulle sostanze che esistono in uno stato intermedio tra il liquido e il solido. Come gli inchiostri, per intenderci, le colle, le schiume, le pitture, i gel. O i cristalli liquidi, di cui De Gennes fu una specie di sacerdote.
Scalatore talentuoso il fragile Onley, lui che prima di concentrarsi sul ciclismo se la cavava anche nella corsa campestre e che alla CRO Race 2022, appena diciannovenne, diede filo da torcere in salita niente meno che a Vingegaard. In questo Tour, una corsa in cui «ogni volta che ti guardi attorno realizzi che lui ha vinto quella corsa, lui quell’altra, lui è un campione di questo, lui di quest’altro», ha detto di aver imparato una cosa soprattutto: che centrare l’attacco giusto e allo stesso tempo preservare qualche energia per il finale di tappa è una faticaccia.
A SuperDévoluy, ieri, era arrivato 5° dopo essere riuscito a infilarsi nella fuga buona insieme ai compagni di squadra Bardet e Barguil, che nel finale si erano sacrificati per lui. Anche oggi faceva parte della corposa schiera che il gruppo maglia gialla ha lasciato andare, opponendo un po’ meno resistenza del solito, giusto prima del gran premio della montagna inaugurale di una giornata in cui ce n’erano in programma cinque, tutti di terza categoria. Molto presto, però, Onley ha forato.
Ha dovuto fermarsi a cambiare una ruota proprio mentre i suoi a quel punto ex compagni d’attacco consolidavano il vantaggio della fuga. Ha perso una trentina di secondi che non sarebbe più riuscito a recuperare. Per alcuni chilometri è rimasto sospeso tutto solo tra fuga e gruppo – lonely Onley – infine si è lasciato riassorbire dal peloton, maledicendo la cattiva sorte e rimandando a giorni migliori i suoi progetti di gloria.
Il ciclismo si rivela, per la stragrande maggioranza dei suoi protagonisti, un continuo posticipare, un differire finché si può l’appuntamento con un destino di successo che tutti indistintamente bramano, ma il cui sentiero il più delle volte si scopre essere accidentato, se non del tutto impraticabile.
Per quelli che non vivono nella galassia di Tadej Pogačar, quindi pressoché tutti, in questo sport perdere è infinitamente più probabile di vincere, e la possibilità di farcela risiede nella speranza – talvolta un miraggio – che un giorno il credito accumulato nel tempo a forza di sfighe piccole e grandi, di cadute, di errori, forature e difetti di talento venga riscosso sotto forma di braccia alzate, come un rimborso ricevuto dall’agenzia delle entrate dopo anni di attesa, quando avevi smesso di rimuginarci. Ha versato troppe tasse, ecco per lei un assegno, perdoni il disguido.
Le tappe come la diciottesima del Tour 2024 hanno, da che ciclismo è ciclismo, questo stesso potenziale di compensazione. Per tramite di fughe annunciate ma mai del tutto preventivabili, offrono opportunità uniche alla materia soffice dei grandi giri, cioè a tutti i concorrenti non abbastanza regolari da competere per la classifica ma non sufficientemente veloci da giocarsi una volata di gruppo, e in generale a chiunque per questo o quel motivo sia in cerca di risarcimenti, di riparazioni, di rivalse.
Per questo sono così ambite le fughe, in queste tappe. Per questo indovinarle è arduo, e per questo in giorni così capita più spesso che in altri che i vincitori si sciolgano dopo l’arrivo, lasciandosi andare a flussi di coscienza che sono boccate d’ossigeno rispetto ai gas di scarico che intorbidiscono la lotta tra i big.
Victor Campenaerts, trentadue anni d’età di cui undici da ciclista professionista, ha vinto oggi la sua prima tappa al Tour de France, cogliendo il successo più importante della carriera. Come c’è riuscito, è presto detto.
È stato, insieme a Vercher della Total Energies, il solo tra i fuggitivi (35 in tutto) a ritenere che l’attacco di Kwiatkowski in cima alla Côte des Demoiselles Coiffées potesse essere risolutivo, e ad avere la forza di assecondarlo in discesa, acconciandolo da mossa vincente.
Mentre Campenaerts, Vercher e Kwiatkowski filavano d’amore e d’accordo per i restanti 34 chilometri eccetto l’ultimo, dietro di loro si sviluppavano contorte dinamiche di alleanze e antagonismi che producevano come unico esito quello di annullare le velleità di tutti, a partire da quelle dei grandi favoriti in caso di arrivo in volata, cioè Matthews, Aramburu e soprattutto Van Aert, incapace di finalizzare il lavoro del sorprendente Lemmen, suo compagno di squadra e di fuga, che fino a quel momento aveva stroncato sul nascere ogni tentativo potenzialmente minaccioso per il capitano.
Il chilometro finale, ormai dentro Barcelonnette, era la storia di due scelte opposte: quella di Vercher, troppo imberbe per resistere alla tentazione di lanciare la volata per primo, appena oltre la flamme rouge, sperando – beata gioventù – di sorprendere le vecchie volpi che si stavano giocando la tappa insieme a lui; e poi quella di Campenaerts, che invece scommetteva sul suo spunto veloce ma soprattutto sulla spossatezza del più vincente e navigato Kwiatkowski. Azzardo riuscito, il polacco non ne aveva davvero più: primo Campenaerts, secondo Vercher, terzo Kwiatkowski.
Oltre a essere un passista formidabile, Campenaerts è un personaggio che non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Per introdurre il suo approccio generale alle cose dello sport, basti la bio con cui si presenta sui social: “Detentore battuto del record dell’ora”.
Durante il Tour, ogni sera pubblica su Instagram un vlog in cui insieme al compagno di camera Van Moer si lascia andare a considerazioni senza filtri sulla Grande Boucle. Ridono, si prendono in giro, raccontano la loro presunta inadeguatezza in una corsa di fenomeni. Uno dei loro tormentoni, evocato in particolare dopo le tappe pirenaiche, è di essere stati ridotti a kipkap, uno snack popolare nei pub di Bruxelles a base di bacon in gelatina tagliato a pezzetti.
Campenaerts è autoironico almeno quanto è meticoloso: ha spiegato nell’intervista post-tappa di aver messo gli occhi su questa Gap – Barcelonnette già da dicembre. L’ha detto con la voce rotta dall’emozione, dopo aver parlato delle difficoltà attraversate dopo le classiche di primavera, quando la Lotto ha ritrattato la promessa verbale di rinnovargli il contratto; soprattutto, l’ha detto dopo aver parlato a lungo di e con Nel e Gustaaf, la sua compagna «eroica» e il suo bimbo di un mese, nato durante un ritiro in altura, un figlio che d’un tratto ha diradato ogni nube. Da quando c’è lui, ha spiegato, «solo cieli azzurri».
Sostiene Campenaerts che diventare padre lo abbia rigenerato, che cambiare il pannolino lo faccia volare: «Ho ottenuto cose importanti nella mia carriera, ma quando lui mi stringe il dito mi dimentico immediatamente di tutto il resto».
Mentre Campenaerts piangeva accomodato sullo sgabello del vincitore, Vercher singhiozzava abbandonato sull’asfalto, le spalle contro una transenna, mentre i compagni della Total Energies cercavano a uno a uno di confortarlo, lo abbracciavano assicurandogli che più di così non poteva fare, che in futuro avrà altre opportunità.
Ce le avrà per davvero? Vivrà Vercher, come Campenaerts, il giorno in cui matureranno gli interessi versati sotto forma di mal di gambe e vento in faccia?
Il ciclismo è bello perché contempla tra i suoi esiti la ricompensa cumulativa delle fatiche passate, ma è perfido perché fino a quel momento lascia macerare nel dubbio il richiedente, svelando l’intima fragilità di uomini cha attimi prima parevano refrattari a tutto.
Secondo Pierre-Gilles de Gennes, la fragilità è un valore. Scrisse in “Oggetti fragili” che «inizialmente la nostra specie ha imparato a lavorare materiali duri come il bronzo, la pietra, il legno, ma presto si è ritrovata ad aver bisogno di pelli, di cere, di fibre naturali, cioè di oggetti più malleabili, dotati di più sfumature. Non può esserci vita senza la materia soffice.»
Domani sulle strade del Tour tornano le grandi montagne, il modo migliore che gli inventori del ciclismo scovarono per scalfire la durezza sovrumana dei primi pedalatori. Se oggi in classifica non è cambiato quasi nulla (grazie alla fuga, hanno recuperato posizioni gli astuti Cras e Martin, adesso 12° e 13°), domani può cambiare tutto. Ai 2800 metri della Bonette l’ordine attuale potrebbe diventare disordine, le corazze di titanio inservibili cenci.
Foto in copertina: Tornanti.cc