[Mondiali 2024] Come se fosse la prima volta
Esiste un confine, nelle cose della vita, oltre il quale ciò che è sembrato a lungo rimediabile appare d’un tratto ineluttabile. Al di qua di questa linea ci sono ancora scelte a disposizione, un certo margine per valutare i pro e i contro, un ventaglio di possibilità che preferiremmo non evolvessero in recriminazioni; al di là, tutto è stato deciso.
Oltrepassato il confine, la ricostruzione della catena di concause che ha prodotto un certo esito diventa esercizio scolastico, ozioso perfino, sfumando nella percezione che non ci sarebbe stato alcun verso di alterare il risultato finale, il quale appare dunque cristallino, predeterminato, ovvio, davvero pensavate potesse finire diversamente?
Nell’arco di appena sei stagioni da professionista, e in quella presente in modo spaventosamente flagrante, Tadej Pogačar ha trasportato la quasi totalità delle gare di ciclismo cui prende parte oltre questa frontiera, nel territorio in cui qualsivoglia dissertazione tecnico-tattica perde consistenza. Gli avversari, insieme alle loro vieppiù risicate opzioni, svaniscono nella cornice, poco più che rumori di fondo in una sinfonia che finisce per essere sempre la stessa, quella solenne dell’inno nazionale sloveno.
Da qualche tempo, la questione dirimente delle gare più importanti del calendario ciclistico non è se Pogačar vincerà, ma come vincerà: che cosa s’inventerà per rendere speciale un’altra casella spuntata, l'ultima gemma incastonata nel diadema del ciclista più forte di quest’epoca, forse di tutte le epoche.
In questa fase della sua carriera, Pogačar ha molto in comune col saltatore che a gara vinta decide di alzare l’asticella per il puro gusto di battere il record del mondo, o con l'acrobata che si libera delle ultime briglie e fa rimuovere la sottostante rete di salvataggio. Sempre più difficile.
Ed è francamente arduo immaginare qualcosa di più difficile – da immaginare, figurarsi realizzare – di un attacco a cento chilometri dall’arrivo, di cui gli ultimi cinquanta in solitaria, in un mondiale affollato di favoriti, nella stessa stagione in cui si sono già esibiti due o tre picchi di forma, si è vinto un Giro, un Tour, una Strade Bianche, una Liegi, eguagliato o battuto primati che sembravano inviolabili da decenni.
Non è in assoluto irrilevante, ripensando alla dinamica della gara di oggi a Zurigo, l’errore di valutazione di Evenepoel e Van der Poel, gli altri due fenomeni al via, a loro volta protagonisti di stagioni di imbarazzante efficacia, che in occasione dell’allungo di Pogačar hanno fatalmente temporeggiato, preferendo attendere il momento giusto nell’allettante benché provvisorio conforto delle rispettive squadre, entrambe teoricamente meglio assortite della limitata Slovenia.
Hanno ritenuto che quello di Pogačar fosse un azzardo eccessivo persino per uno scommettitore incallito quale lui notoriamente è. E a onor del vero c’è stato, intorno ai trenta dall’arrivo, un frangente in cui il rischio mondiale di Pogačar è sembrato poter fallire: il suo vantaggio è sceso sotto il minuto, poi sotto i quarantacinque secondi. Poi non è sceso più. E poi è salito di nuovo.
Rimane, chiara, la sensazione che Pogačar avrebbe vinto questa corsa anche se avesse atteso più a lungo, o se i suoi avversari avessero atteso di meno. Questo ennesimo sfoggio di intrattabilità agonistica ha certificato, qualora fosse necessario, che la superiorità dello sloveno ha radici mentali, prima di tutto.
Pogačar dispone di un acume tattico mostruoso, una sorta di prescienza che nessuno dei suoi avversari può vantare: certamente non Evenepoel e Van der Poel, mandati in tilt da un’azione di per sé non sorprendente – considerata la recidività del suo promotore – che tuttavia li ha sorpresi. Come se fosse la prima volta, come se non sapessero con chi avevano a che fare.
Con chi abbiamo dunque a che fare?
Come gli capita nei giorni migliori, come all’ultimo Tour de France nel pomeriggio di Pla d’Adet, quando intravide un appannamento nei dispositivi di Vingegaard, si avvicinò ad Adam Yates e improvvisamente gli chiese di attaccare, stravolgendo il piano iniziale della sua squadra, Pogačar anche oggi ha adattato il disegno iniziale alle circostanze.
Il suo compagno e connazionale Domen Novak ha dichiarato che l’idea del mattino era un attacco nell’ultimo giro del circuito, poi invece Tadej ha percepito qualcosa: forse il cattivo posizionamento di Evenepoel, forse una certa qual svagatezza di Van der Poel.
Come che sia, ha captato, presagito, indovinato. Ha avuto una di quelle inesplicabili intuizioni che stillano dai rari campioni del suo rango. Ha eguagliato Merckx e Roche, i soli due ciclisti nella storia di questo sport in grado di completare la Tripla Corona (Giro, Tour, Mondiale), ma il presentimento è che un giorno non lontano a Pogačar possa andar stretto perfino il paragone una volta impensabile col Cannibale.
Abbiamo a che fare con un fuoriclasse che scapiglia, scompagina, sconquassa. Un ciclista il cui sublime talento invita tutte le volte a tornare all’inno sloveno, la stesura delle cui strofe ricorda volutamente la forma di un calice di vino. È un carmen figuratum: si intitola Zdravljica, vuol dire «brindisi».
Testo: Leonardo Piccione
Foto in copertina: Tornanti.cc