[Milano - Sanremo 2018] Sanremo è un'invenzione

San Remo non esiste. Non c'è mai stato nella storia della Chiesa un santo che si chiamasse Remo. Si annoverano un Remedio, un Remaclo, diversi Romolo e plurimi Remigio, ma nessun Remo. Colui che ha dato il nome alla sede d'arrivo della prima vera corsa ciclistica della stagione è uno dei Romolo. Romolo di Genova, per la precisione, vescovo, tramutato in Remo da decenni di riduzioni dialettali ed errori di trascrizione. San Remo, dunque. Staccato. Almeno secondo alcuni documenti, perché invece i locali hanno sempre preferito la forma contratta, e 15 anni fa sono riusciti a farsi riconoscere ufficialmente le proprie ragioni: la città non può chiamarsi San Remo, perché non è mai esistito alcun San Remo. Esiste Sanremo. Una parola sola. Una trasformazione, una fusione. Un'invenzione.

Nel ciclismo inventare è complicato. Non è possibile ricorrere all'ausilio della tecnica pura, al genio di un pallonetto allo scadere o di un tiro da tre fuori equilibrio. Inventare nel ciclismo significa soprattutto vederci lungo; immaginare da lontano prima di eseguire. Il guizzo da solo non basta, se prima non si è stati in grado di spiegarlo alle proprie gambe. Artigiano nella bottega della strada, Vincenzo Nibali intraprende a 30 chilometri dall'arrivo della Sanremo 2018 la nobile arte del limare. Piccoli scatti, spallate, deviazioni e urli. Dimentica i freni e si infila in ogni spiraglio, alterna il riparo all'abbraccio del vento, sfrega le venature del gruppo lavorando come un falegname con la pialla. Il suo compito è scortare Colbrelli fino alla volata, però ha una licenza: "Se qualcuno si muove, provare a seguirlo".

Il qualcuno del destino di Nibali ha la sagoma slanciata di Krists Neilands, promettente campione lettone. Il dove è il Poggio di Sanremo, una salitella che già Anquetil aveva definito "insufficiente per provocare una rigorosa selezione". Era il 1960. Dopo quasi sessant'anni, Neilands attacca sul Poggio e Nibali risponde; poi rilancia e fa il vuoto. Provoca una selezione rigorosissima. Erano un centinaio all'inizio della salita, uno solo alla fine. Lo sospinge la radio, che si inventa indicazioni volutamente ingannevoli: "Hai 20 secondi di vantaggio, dai", gli dicono quando ne ha nove soltanto. Lui va. Non ha il tempo per temere il ritorno di Trentin, quello cui alla partenza avevano chiesto se non fosse una giornata da eroi con tutta quella pioggia, e lui aveva risposto meglio di no, gli eroi sono tutti morti e io sono vivissimo. Non si volta per nessun motivo, Nibali, nemmeno per un'occhiata fugace ai marosi del Ponente, a marzo sono impazienti da far male. Non somigliano per nulla al lago di Como, ma Nibali riesce a costeggiare le acque dolci e quelle salate con la medesima efficacia. Cinque mesi fa era Il Lombardia, oggi è La Primavera. Un altro Monumento, diversissimo. Lo stesso risultato.

Perché il ciclismo di Nibali non distingue. Fonde. Possiede l'ostinazione dei dialetti che mutano, l'esperienza degli errori che fortificano. Nibali trasforma Romolo in Remo, la fantasia in realtà. Non fa calcoli eppure arriva puntualissimo, non un secondo più tardi, se si guarda l'ultimo fotogramma pare abbia battuto Ewan allo sprint. Festeggia dopo essersi inventato un attacco che non esisteva. Ottiene la vittoria che nessuno si aspettava, forse nemmeno lui, o più probabilmente solo lui: un campione da Grandi Giri che decide di costruire una delle ultime stagioni buone della sua carriera intorno alle Classiche. È partito da Sanremo (tutto attaccato), vincendo una corsa indimenticabile. Su via Roma splende il sole: è finita La Primavera, la primavera è cominciata.

 

 

 

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