Un'ora sola

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Le megattere fanno parte della mia vita da circa sei anni, da quando cioè ho eletto a mia seconda casa il ridente villaggio di Húsavík, Islanda nordorientale. Prima che la sua celebrità intercontinentale fosse accresciuta due anni fa da una commedia con Will Ferrell, Húsavík era presentata dalle guide semplicemente come la “Capitale europea del whale watching”.

La baia di Húsavík ospita infatti più di venti specie diverse di balene, che ogni estate salgono ai confini dell’Artico per trascorrere quattro o cinque mesi a banchettare allegramente. Nella baia di Skjálfandi si possono incrociare con ottima frequenza capodogli, globicefali, balenottere minori e talvolta azzurre – ma soprattutto megattere. Se siete stati a Húsavík e avete visto le balene, quasi certamente avete visto delle megattere. 

Anch’io nei miei tour nella baia ho adocchiato finora quasi solo megattere, e quando fornisco informazioni a esploratori oceanici di ogni nazionalità circa lo spettacolo che li attende in mare mi riferisco specificamente alle prodezze delle megattere, che di rado tradiscono la loro fama di animali amichevoli e giocherelloni. 

Le megattere si avvicinano curiose alle imbarcazioni, respirano e spruzzano, s’immergono esibendo la larga pinna caudale, in alcuni casi saltano fuori dall’oceano per intero, per il gusto di farlo. La circostanza per cui si ritiene che in determinate situazioni le megattere possano più o meno volontariamente decidere di difendere dall’attacco di orche e altri aggressori marini non solo i propri simili ma anche esemplari di altre specie (per esempio foche) rafforza il loro piazzamento nella classifica dei miei esseri viventi preferiti. 

Quando, alcuni giorni fa, ho appreso che uno studio australiano sull’aerodinamicità dei cambi di direzione subacquei delle megattere era alla base di un significativo accorgimento tecnico apportato da Pinarello alla bicicletta con cui Filippo Ganna si apprestava a battere il record dell’ora, ho pensato che seguire il suo tentativo sul mio portatile qui a Húsavík, accanto a una finestra con vista sulla baia delle balene, non fosse esattamente come essere nel velodromo di Grenchen ma avesse comunque il suo perché. 

Non credo di essere in grado di spiegare compiutamente le ragioni del fascino esercitato da un evento come il record dell’ora, che è privo dell’elemento che più di tutti mi fece avvicinare allo sport del ciclismo: il viaggio. La distanza accumulata nei sessanta minuti di quest’esercizio non conduce verso nessun altrove; il viaggio è puramente teorico, l’unica esplorazione concessa è quella ai confini della propria concentrazione e di un dolore fisico che negli ultimi dieci minuti di prova tende a farsi via via più insopportabile.

Ganna gira. Non va da nessuna parte, eppure va. L’armonia della sua figura – uomo e macchina indistinguibili – conferisce al suo forsennato incedere il controintuitivo attributo della levità. La pista è un disco e lui la puntina che sfiora i microsolchi tra i listelli d’abete: verrebbe da dire che produce musica celestiale, se non fosse che all’impresa fa da sottofondo la complessivamente meno eterea playlist di un suo amico dj, più, a ogni passaggio, urla di incitamento di preparatori, amici e colleghi. Pippo! Pippo! Pippo!

Ganna pedala, vola, galleggia, nuota. È sospeso a mezz’aria e insieme immerso in abissi pullulanti di vita. Il suo debito nei confronti dei cetacei ha la forma di una serie di piccole creste, simili alle sporgenze delle pinne delle megattere, che percorrono il sottosella della sua bici, riducendo l’attrito dell’aria. E mentre riscrive la storia, unificandone nomi e record, lo si osserva con lo stesso stupore con cui si osservano certi fenomeni della natura complessi e intuitivi a un tempo.

Millenni di evoluzione, decenni di sviluppo, mesi di programmazione, giorni di affinamento. Le stampanti 3D, gli abeti siberiani, le gallerie del vento, le 1419 catene scartate prima di produrre quella giusta.

I misteri delle balene – le ultime rimaste quest’anno – nell'uggia della baia oltre la mia finestra.

I prototipi di fine Ottocento – i primi bicicli della storia, difettosi ma già battezzati «annichilatori dello spazio» – e tutti quelli che, miglioria dopo miglioria, hanno preceduto il Bolide.

Tutto condensato in un oggetto solo, in un’ora sola, nel format ancestrale del girotondo ripetuto da Ganna per 227 volte, cioè 56,792 chilometri, una distanza che – altro che da nessuna parte – l'ha condotto nella leggenda.

 

Leonardo Piccione

 

 

 

 

 

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