Non se ma quando
Nel vasto novero di multiformi guai che affastellano la carriera di Primoz Roglič, quello che gli è occorso ieri pomeriggio nel finale della sedicesima tappa della Vuelta a España potrebbe godere del primato del più illuminante.
Certo, la caduta a cinquanta metri dal traguardo di Tomares, le cui conseguenze hanno costretto lo sloveno al ritiro dal grande giro spagnolo, non raggiunge le vette di pathos della cronoscalata alla Planche des Belles Filles 2020, allorché la tragedia sportiva si consumò lentamente, nell’arco di una delle più incredibili ore della storia recente del Tour de France, ma possiede il pregio di sintetizzare in modo egualmente tragico e puntuale l’ottovolante emozionale cui Roglič ha abituato negli anni sé stesso e i suoi seguaci.
Un attacco a meno di tre chilometri dall’arrivo di una tappa per velocisti, su uno strappo non categorizzato, seguito da una rovinosa scivolata a cinquanta metri dall’arrivo, quando la missione sembrava per lo più compiuta. In rapidissima sequenza, due capisaldi della sua parabola ciclistica: la sorpresa (sentimento che risale alla sua irruzione in questo sport, alla sua immediata affermazione, alla sua evoluzione tattico-caratteriale), poi l’intoppo (sotto forma di cadute e crisi improvvise, errori e sfortuna).
Invenzione, tenacia, esaltazione, foga, rabbia, disillusione, amarezza. Tutto in meno di dieci minuti, minuti che hanno condensato nel loro dramma molti degli elementi-chiave di quasi dieci anni di professionismo di un atleta oggettivamente unico nel suo genere e che spiccano, oltre che per la loro capacità di sintesi, anche per la spietatezza – la nera ironia? – con cui hanno trasformato in disfatta un’azione di rara intensità ciclistica.
Roglič ha conosciuto una delle più pesanti battute d’arresto della sua carriera in risposta a uno dei più generosi assalti che abbiamo visto portargli.
Lui che a lungo (e ingenerosamente) è stato additato di freddezza ed eccessivo ricorso ai calcoli, ieri è stato ‘punito’ – non è centrale qui stabilire se nella caduta sia stato più maldestro o sfortunato – per esserci lanciato in uno di quei tentativi che più fanno breccia nei cuori degli appassionati di ciclismo.
Dopo aver ravvivato il finale di una tappa noiosissima col solo obiettivo di strappare otto minuscoli secondi a Evenepoel, segnalando al rivale la propria indomabilità, anziché ricevere la ricompensa sperata, il premio che si deve all’audacia e alla fantasia, al pari di un ragazzino rimbrottato da un genitore troppo rigido Roglič si è sentito dire dall’asfalto: visto che succede a far di testa tua?
È l’ultimo episodio di un processo di progressiva caratterizzazione che ha reso Primoz Roglič uno dei ciclisti più riconoscibilmente fallibili del gruppo; in questo senso, uno di quelli più vicini a noi spettatori, il che da un lato è garanzia di imperituro affetto da parte dei tifosi di ciclismo, da sempre sedotti dal fascino degli sconfitti, dall’altro comporta il rischio che il suo principale lascito nella storia di questo sport resti affidato a un paio di topici fotogrammi: il caschetto storto in cima alla Planche, gli occhiali cadenti sull’arrivo di ieri.
Ma Roglič è molto più della sorta di paperinesca figura che gli eventi degli ultimi anni hanno forgiato.
È, tanto per cominciare, l’unico corridore nato negli anni ’80 ancora in grado di dire la sua, e talvolta di intromettersi, nel regno dei nuovi e nuovissimi dominatori dei grandi giri.
È, soprattutto, un atleta vincente – altro che sconfitto – il cui vero tratto distintivo, al di sopra delle sorprese e degli intoppi, è la capacità di rispondere colpo su colpo agli affronti del destino infido. Primoz Roglič è il più adorabile testardo punching ball che conosciamo, e per questo dopo il disastro di ieri la questione non è se controbatterà (sì), ma semplicemente quando (presto).
Leonardo Piccione