[Roubaix 2024] Un regale cavallo bianco

La consueta sequenza di polvere, sobbalzi, disordine, lerciume.

Poi cadute (Rex, Merlier, Viviani e Milan tra i primi estromessi dalla contesa), forature (Pedersen, Degenkolb, Politt e Segaert, tutti costretti a forsennati inseguimenti), battibecchi con la giuria (Tarling, espulso per bidon collé), vento in faccia (soprattutto quella di Mathias Vacek, 22 anni da compiere e ore trascorse a tirare per i compagni in testa a questo o quel gruppetto), generalizzata fatica.

La Roubaix più veloce della storia dopo la Sanremo e il Fiandre più veloci della storia.

All’ingresso nella Foresta di Arenberg erano rimasti in pochi, all’uscita ancora meno. Pochi in assoluto, però tre e buoni della Alpecin, al punto che Mathieu van der Poel poteva concedersi il lusso di attendere ancora un po’ e muovere le efficientissime pedine che questa primavera sono i suoi compagni di squadra (su tutti un monumentale Vermeersch, che di nome fa Gianni ma che potremmo ribattezzare Fabio, uno stopper come non se ne vedevano dai tempi di Cannavaro ai mondiali di Germania), concedendo illusorie fiammate a rivali ancora speranzosi (Küng e Politt i più convinti nel provare a impensierirlo) e mettendo un’altra volta in mostra un’avvedutezza tattica che rasenta ormai il cinismo.

Poi si è arrivati a Orchies.

Non è un luogo qualunque, Orchies. Se la Roubaix moderna è l'adorabile inferno che conosciamo, molto lo si deve al filotto di stradine in pavé che circondano questa cittadina di 8500 abitanti che per ragioni per lo più commerciali è nota come capitale mondiale della cicoria e i cui abitanti, quasi tutti residenti in casette di mattoni rossi, sono soprannominati "porchouts", ovvero maiali.

Il settore di Orchies tecnicamente è composto da due diversi sentieri, la carrareccia del "Chemin des prières" (il cammino delle preghiere, un tempo vi si svolgevano le processioni), e il susseguente pavé del "Chemin des mattatoirs" (il cammino che conduceva al vecchio macello). Fino a una trentina di anni fa, cioè prima che i settori di pavé si moltiplicassero fino a un totale di 55,7 chilometri, si diceva che la Roubaix cominciasse davvero a Orchies: perché è qui che la corsa fa un ricciolo a ovest e va a caccia di pietre.

Da Orchies in avanti, la Roubaix diventa un inferno senza respiro. E a Orchies, facendo della cicoria i suoi spinaci, Mathieu van der Poel se n’è andato.

Mancavano 59,6 chilometri e 12 settori di pavé all'arrivo, ma era chiaro a quel punto che fossero dettagli. Libero dal timore di qualsivoglia matador, a Van der Poel non restava che inarcare la gobba come un toro alla carica e spingere, saltare furibondo da un sasso all'altro, fare surf su un oceano di mani che si agitavano per incitare, battevano per complimentarsi, riferivano quel che ogni appassionato di ciclismo sentiva di dovergli dire: grazie per essere sceso in Terra, per essere salito su una bicicletta, per rispondere ai nostri dubbi con le tue esibizioni.

Quando la strada s’arricciava nuovamente, stavolta in direzione Roubaix, Van der Poel aveva ormai un Carrefour de l'Arbre di vantaggio su quelli che lo seguivano, ma che difficilmente si potevano chiamare inseguitori. Uno contro tre, uno contro quattro, uno contro tanti, il suo vantaggio continuava a crescere a ritmo di musica da ballo.

Del mezzo aveva come sempre una totale padronanza, la quale tuttavia è una parola imprecisa, approssimativa nel suo rimando a un concetto di signoria esclusiva, a una unidirezionale autorità che mal definisce il rapporto in essere tra Mathieu van der Poel e il suo mezzo. Egli non ne è il padrone assoluto: Van der Poel e la sua bicicletta si posseggono a vicenda. Lui non tradisce lei, lei non abbandona lui. Il primo è totalmente definito dalla seconda e la seconda sembra essere stata concepita per il primo, anche se è sufficiente una rapida indagine fisionomica a provare che è vero il contrario.

È Van der Poel ad essere nato per la bicicletta, anzi a motivo della bicicletta, come scandito dal sorriso che il campione del mondo ha esibito a favore di telecamera a poche centinaia di metri dall’ingresso del velodromo di Roubaix e poi diverse altre volte dopo l’ufficializzazione della sua sesta vittoria in una classica monumento, la seconda consecutiva in maglia iridata, nella versione del suo volto - quella gioiosa - che più di tutte chiama in causa i lineamenti del nonno materno e della sua leggenda.

L’allaccio carnale di Van der Poel alla storia di questo sport è una delle ragioni che spiegano perché il suo dominio sembri rivestito di un’aura trascendente, mistica, per certi versi magica. Si dice che governare un biciclo sui ciottoli del Nord sia impresa simile ad ammansire un quadrupede riottoso, che occorra un incantesimo per uscire intonsi dalle vibrazioni di quei ventinove settori in pavé: e Van der Poel è uno stregone che erge ponti d’oro tra le pietre sconnesse, il perfido porfido per lui si rabbonisce, la zucca si fa carrozza, la bici impolverata regale cavallo bianco.

Non scocca mai la mezzanotte, per Van der Poel: in vista del traguardo, dava con la mano destra dei colpetti gentili - quasi delle carezze - alla canna del suo mezzo alato, come a volerne liberare finalmente il genio, in una sequenza vagamente pubblicitaria che tuttavia era anche un manifesto del suo ciclismo ludico, del bimbo col suo giocattolo preferito.

Nel velodromo André-Pétrieux, la volata era ancora una volta solo una questione di piazzamenti d’onore, con Philipsen e Pedersen omaggiati dei piccoli blocchi di pavé riservati al secondo e al terzo di giornata. Sei milioni di pietre per vincerne una.

Per accaparrarsi la più grande non c’è stata storia, difficilmente ce ne sarebbe potuta essere: il sospetto che questo vincitore avrebbe vinto - dominato - anche contro un più nutrito parterre di avversari, anche contro tattiche meglio congegnate, è talmente forte che a posteriori si può forse trovare un risvolto positivo nel sanguinoso forfait di Wout van Aert, la cui assenza forzata prolunga la speranza (l’illusione?) che Van der Poel abbia ancora rivali.

Mentre i battuti sprintavano tra loro, lui era arrivato da tre minuti esatti: osservava tutto, comodamente poggiato su quello che in un ritratto di Toni Bevilacqua, vincitore della Parigi-Roubaix 1951, Gianni Brera definì il “miracoloso traliccio chiamato bicicletta”.

 

Testo di Filippo Cauz e Leonardo Piccione
Foto di Francesco Rachello /  Tornanti.cc

 

 

 

 

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