[Sanremo 2024] Quasi nessun vinto

Poco dopo aver tagliato la fasciona bianca-nera-bianca del traguardo di via Roma, Jasper Philipsen viene raggiunto da Michael Matthews e Tadej Pogačar, che per questione di centimetri più che di centesimi di secondo sono i primi battuti della Milano-Sanremo 2024.

Lo raggiungono, lo osservano, sorridono. A guardar bene, sembra che sorridano più Matthews e Pogačar che Philipsen, il cui cuore non deve aver ancora compreso, men che meno assimilato, l'ordine d'arrivo appena materializzatosi. Matthews e Pogačar stringono a sé il vincitore come i più gaudenti dei compagni di squadra, e passano ancora diversi secondi prima che Philipsen venga raggiunto da un suo vero compagno di squadra, un Mathieu van der Poel che, anziché abbracciarlo, per prima cosa china la testa e l’appoggia sul petto di Philipsen, quasi a volerne annusare l’essenza primaverile.

Ha ancora sul volto, Van der Poel, il ghigno di chi ha lasciato che l'adrenalina prendesse possesso per intero del suo corpo: con la mandibola serrata e la zazzera bionda che spunta dal caschetto, sembra appena uscito, all'alba, da un club di Rotterdam in voga a metà anni Novanta. Ci vogliono due abbracci perché s’intenerisca, qualche altro secondo perché Philipsen accolga dentro di sé l’inimmaginabile notizia: ha vinto la Milano-Sanremo.

Bell’arzigogolo, Jasper Philipsen. Quando passò professionista sembrava destinato a vincere ogni classica monumento: una versione aggiornata di Tom Boonen, del quale aveva seguito quasi pedissequamente le orme. Un cambio di maglia e cinque anni dopo, si è scoperto il velocista più dominante del gruppo, si è liberato della zavorra degli anni giovanili e del famigerato soprannome "Jasper Disaster", il Gian Burrasca del ciclismo fiammingo, e finalmente eccolo qua, funambolo in grado di vincere per davvero le grandi classiche.

Questa Sanremo, dice Philipsen, è un «game-changer», un punto di svolta. «Se questo giorno doveva arrivare, non poteva che essere oggi». Perché in una corsa del genere «bisogna aver fortuna, e che tutti i pezzi si incastrino». Perché «ho fatto un po' di cazzate in volata ultimamente, e se l'avessi combinata pure oggi ci avrei rimuginato tutta la vita».

Perché, soprattutto, non capita tanto spesso che a sacrificarsi per la tua vittoria sia il campione del mondo, un ciclista che le classiche sembra poterle vincere sempre tutte.

Quando, salendo verso il Poggio, per due volte Tadej Pogačar è scattato – ché a stare fermo a lui gli viene la noia – Philipsen era convinto che non sarebbe stato questo il giorno giusto. Poi ha guardato oltre il buco, al di là del vuoto bitumato che lo separava dalle schiene dei migliori: s’è accorto che era più contenuto di quanto temesse, e ha chiesto a Van der Poel di rallentare. Di non collaborare con Pogačar; di fare il possibile affinché a Sanremo si giungesse in volata.

Ho le gambe della vita, ha detto Philipsen a Van der Poel, e dentro la sua irradiata maglia iridata Van der Poel gli ha creduto senza batter ciglio, rinunciando all’eventualità di giocarsi la vittoria in prima persona e mettendosi a completa disposizione del compagno. Per ragioni di reciproca onestà, ha spiegato. Stupore di uno sport individuale che è prima ancora gioco di squadra, coerente nella sua irrazionalità di fondo.

Non concedendogli nemmeno un cambio, Van der Poel afflosciava così l’attacco di Pogačar; dopodiché vanificava i tentativi di Mohorič prima e di Sobrero e Pidcock poi, azioni a loro volta più che sensate, tentativi che l’ontologica imponderabilità della Milano-Sanremo ci faceva sembrare quelli giusti per una manciata di secondi, per poi un attimo dopo convincerci che non lo erano più, che non potevano esserlo.

Corsa multiforme, multistrato, multicolore. Un ottimo Bettiol, un ritrovato Alaphilippe, un Ganna tanto bello quanto sfortunato: foratura in cima al Poggio, dove un tempo c’era una cabina telefonica e oggi è rimasta qualche chiamata senza risposta. Molti vincitori e quasi nessun vinto, il titolo di sconfitto di giornata se lo autoattribuisce di sua spontanea volontà proprio Pogačar, incapace di nascondere nel post-gara la sua crescente impazienza.

Quinto nel 2022, quarto nel 2023, terzo quest’anno, ha detto che non ci pensa proprio ad arrivare secondo tra dodici mesi, e che se nemmeno la Milano-Sanremo più veloce della storia non si dimostra tosta abbastanza da favorire uno come lui, allora bisognerà inventarsi altro per essere quello abbracciato su via Roma, non uno che abbraccia.

Un anno fa, in fondo a quel benedetto rettilineo, c’era voluto quasi un minuto prima che Jasper Philipsen raggiungesse Mathieu van der Poel. Abbandonato per terra, Van der Poel faticava a trovare il fiato per celebrare a dovere il successo appena ottenuto. Ma all'arrivo del compagno si era alzato per abbracciarlo: prima in modo stanco, stiracchiato, pochi secondi dopo col fare liberatorio delle grandi vittorie.

È trascorso un anno, ne sono trascorsi centodiciassette, e siamo sempre lì, lo stesso posto, la stessa storia, gli stessi abbracci. Sempre la solita scontata, imprevedibile, travolgente Sanremo.

 

Testo di Filippo Cauz e Leonardo Piccione
Foto di Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

 

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