[Strade Bianche 2024] Pronto

  • Di:
      >>  
     

    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Aveva detto di sentirsi «pronto», alla partenza.

A cinque mesi dall’ultima gara disputata (il Giro di Lombardia 2023, vinto), Tadej Pogačar rispondeva ai cronisti con l’aria dello studente universitario riemerso con sollievo dalla clausura che precede la sessione invernale, consapevole che a quel punto il più è fatto e l’esito dell’esame incipiente in gran parte già deciso, predeterminato dalla dedizione con sui ci si è applicati nelle settimane precedenti il test.

Più esile del solito, più fulvo del solito, forse più giovane del solito, Pogačar era impaziente di misurarsi, di mettere alla prova le proprie conoscenze e apporre un altro timbro sul suo scintillante libretto.

Aveva studiato: lunghe ore sui voluminosi tomi di Storia del ciclismo (corso avanzato), che lo sloveno ha l’invidiabile vantaggio di contenere al suo interno, nell’intimo delle sue prodigiose fibre, come una specie di software preinstallato o una nozione acquisita senza sforzo durante il sonno, con l’esito che i suoi trenta e lode non risultano mai sfoggi di erudizione fini a se stessi, ma armoniose disamine di concetti naturalmente afferrati e fatti propri. Il candidato possiede la materia, come si suol dire. 

Quando attacca tutto solo a 81 chilometri all’arrivo della Strade Bianche numero 18, finalizzando il lavoro di Del Toro e Wellens (ammesso che si possa finalizzare qualcosa quando mancano più di due ore all’effettiva conclusione), Pogačar ha la piena consapevolezza storica di quel che sta intentando – celebrare la maggiore età della Classica toscana offrendole in dono un’azione degna di leggende del ciclismo che l’anagrafe non le ha consentito di conoscere – ma questa consapevolezza riesce ancora a travestirla credibilmente da gioco, da insensato azzardo provato sotto un acquazzone di marzo che, rinunciando a occupare una scena non più sua, dopo l’allungo del folletto della UAE immediatamente si scansa.

C’è una calda luce primaverile a ingentilire le pievi, a indorare gli ulivi mentre Pogačar saetta liquido come un fiotto, fugace come un’onomatopea, il woosh pubblicitario che ha stampato sul retro del body bianco. 

Se il suo dominio non sconfina mai nella monotonia è perché Pogačar è un prestigiatore.

Il trucco più riuscito del suo repertorio è quello di spostare l’asticella in alto e contemporaneamente indietro: indietro nel tempo (perché ancora una volta osservandolo cavalcare non s’è potuto fare a meno d’invocare Coppi, citare Merckx, tirare in ballo Hinault) e indietro nello spazio, nel senso di più lontano dal traguardo, sì, ancora un po’ più in là, sempre più difficile direbbero gli equilibristi al circo.

Due anni fa aveva sbaragliato la concorrenza andandosene a cinquanta chilometri dall’arrivo, sulle pendenze sterrate di Monte Sante Marie; quest’anno i demiurghi del percorso avevano aggiunto una trentina chilometri di polvere e asfalto e anticipato il passaggio a Monte Sante Marie, ma con sprezzo di ogni unità di misura lui se n’è andato comunque lì, su una strada che adesso è di fatto sua e alla cui uscita aveva già accumulato oltre un minuto su tutti gli altri.

Il fatto che tra questi altri non figurasse nessuno dei tre o quattro esseri viventi in grado nei loro giorni migliori di contrastare l’onnipotenza pedalante di Pogačar contribuiva a cementare la sensazione che alle due e trentacinque del pomeriggio la corsa fosse già finita.

Male per gli adepti della suspence teletrasmessa forse, benissimo per i tanti spettatori a bordo strada, che potevano godere ora di due, ora di due e mezzo, ora di tre minuti di sospensione tra il passaggio di Pogačar e il sopraggiungere del resto, in una di quelle squisite occasioni in cui lo sport del ciclismo concede una parentesi di vuoto per soppesare il privilegio di cui si ha appena goduto, per convincersi che non era un’illusione, per onorare il campione gaudente e altre cose belle della vita con un battimani, un salto sul posto, un passo improvvisato sulla musica da ballo che a partire dalla Milano-Sanremo del 1946 viene suonata in occasioni simili all’odierna.

Tadej Pogačar appariva in Piazza del Campo quasi del tutto intonso, luminoso, si potrebbe dire trasfigurato, come se avesse pedalato nell’empireo e non nell'arena fangosa che aveva insozzato il secondo e il terzo classificati, gli ottimi Skujinš e Van Gils. La corazza di solitudine sportiva – una delle più abbacinanti solitudini che ci abbia proposto in questi anni – lo aveva preservato dagli schizzi e dalla polvere, e ha già reso questa sua nuova impresa immune all’incedere spietato del tempo.

 

Testo: Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Categoria: