[LetteraTour, Tappa 20] Virage Pinot

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Questo articolo è stato pubblicato nella newsletter #LetteraTour, curata da Leonardo Piccione, il 22 luglio 2023. Tutti i contributi della newsletter sono raccolti nel volume "Quelli che sognano di giorno", disponibile in formato cartaceo e digitale.

In fondo all’ultimo spezzone dell’ultimo sentiero dell’ultima stradina di Mélisey, Alta Saona: lì il prossimo luglio sarà possibile trovare Pinot. La sua carriera sarà finita da alcuni mesi, il suo ultimo Tour un ricordo vecchio di un anno. Il nomadismo della vita da corridore, che rende i ciclisti così simili ai saltimbanchi e ai fachiri, che per anni ce li porta a domicilio, venditori ambulanti della loro sofferenza, avrà lasciato il passo alla stanzialità tipica degli agricoltori. Sarà finalmente a casa.

Una fattoria in cima a un piccolo promontorio, costruita su di un appezzamento ereditato dai trisnonni paterni, ben esposto, circondato da pascoli e un pugno di piccoli stagni. Tutt’intorno, sparpagliati nel verde, una mezza dozzina di asini, sei grosse vosgiennes maculate, una decina di pecore con la rispettiva coppia di agnelli nati in primavera, alcuni dei quali – a malincuore e non prima di essersi assicurato che non verranno trasformati in bistecche – di lì a breve sarà costretto a vendere. E poi un numero imprecisato di capre, i primi animali che ha posseduto e la cui psicologia considera per certi versi paragonabile alla sua: sono esseri volubili, non amano la pioggia, a volte fanno cose sciocche e sfuggono di continuo.

Poco lontano dalla fattoria, un frutteto. Peri, ciliegi, albicocchi, susini: ne ricava ottime confetture. Infine un orto. I clienti che avranno prenotato una visita didattica o una notte nel da poco inaugurato B&B di famiglia quasi certamente lo troveranno là: a luglio maturano i pomodori. 

E allora lui si sfilerà momentaneamente i guanti da lavoro e mostrerà loro la camera. Su una parete laterale della sala comune, dove il mattino successivo sarà servita la colazione, gli ospiti noteranno appesa una fotografia, non molto grande ma appariscente, centinaia di persone in tripudio e al centro un ciclista al massimo del suo sforzo, con la maglia semiaperta e i denti digrignati. 

Quando gli chiederanno lumi, per ignoranza o semplice curiosità, il padrone di casa racconterà di uno dei pomeriggi più incredibili della sua vita precedente, quando era il re di Francia e le folle si aprivano al suo passaggio.

Il motivo principale che ci spinge ad attendere i ciclisti in strada è lo stesso che da millenni ci fa riunire intorno a un fuoco: le storie. Le fiabe, le parabole, i piccoli e grandi drammi di cui, per il semplice fatto di assistere in carne ed ossa al loro resoconto, diventiamo testimoni, se non coprotagonisti. Più la storia è intrigante, l’intreccio ben costruito, più ascoltatori si radunano, arrivando talvolta da molto lontano, consci che quel racconto potrebbe riguardarli da vicino, potrebbe parlare anche a loro.

Le migliaia di uomini e donne di tutte le età radunate da giorni sul Petit Ballon, penultima salita della penultima tappa del Tour de France 2023, sono il primo, incontrovertibile attestato del valore e del significato condiviso della storia ciclistica di Thibaut Pinot. La sua parabola ha parlato al pubblico del ciclismo come poche altre nella storia recente di questo sport, trascendendo la dimensione strettamente agonistica. A un certo punto non importava più dove si piazzasse, che risultato ottenesse. Per lui forse continuava a contare (Solo la vittoria è bella, ha tatuato su un braccio), ma per chi lo attendeva era sufficiente che ci fosse: che Pinot passasse, con le spalle mai ferme e la faccia da teatro.

Perché Pinot suscitava un grado di immedesimazione irraggiungibile per chiunque altro o quasi. Una naturale consonanza che solo in parte aveva a che fare con le sue sconfitte – dal momento che non era di per sé un perdente.

Certo, ha perso. Ha perso in modo talvolta ingenuo, altre volte inspiegabile, sempre pirotecnico. E tragico, come al Tour del 2019, quando era nella forma della sua vita e si ritirò a tre tappe dalla fine per una non meglio specificata noia muscolare. Era un Tour di transizione, l’ultimo prima della nuova era di fenomeni: l’unica occasione concreta per lui di realizzare la vecchia speranza di diventare il primo francese dopo Hinault a vincere la Grande Boucle, e la mancò.

Tutto questo ha contribuito ad avvicinare Pinot agli appassionati, a farcelo sentire uno di noi – poiché noi umani, in ultima analisi, perdiamo. Ma se Pinot ci ha emozionati così tanto, e se oggi, osservandolo davanti a tutti nell’ultima tappa di montagna della sua carriera al Tour, era impossibile non tifare per lui, questo è soprattutto per via di un tratto che ha esibito tanto nella cattiva quanto nella buona sorte: la sua visceralità, quell’impulsività quasi infantile che l’ha sempre mosso e che inevitabilmente ci attraeva.

Perché non tutti siamo istintivi, ma tutti siamo stati bambini. E Thibaut Pinot ha continuato a essere bambino quando noi non volevamo o non potevamo più. È rimasto fedele al ragazzino che è stato, nei capricci e nelle debolezze, nei sogni, nell’estro, negli strepiti e nei pianti. 

Coerente a partire dall’espressione del viso, dolce e impertinente a un tempo, sempre uguale a quella di una ripresa televisiva di molti anni fa in cui gli chiedevano cosa sognasse di fare da grande e lui, ciclista di sette anni, strinse le spalle e inarcò le sopracciglia, spontaneo, incapace di bluffare.

«Champion du Tour de France!», rispose un suo amichetto. «Moi aussi!», gli fece eco Thibaut.

A due chilometri dalla cima del Petit Ballon era allestito il Virage Pinot, un tornante che su Google Maps è già indicato come luogo sacro. I preparativi andavano avanti da mesi. C’erano amici, familiari, simpatizzanti, bandiere, cartelli, birre. A coordinare i cori Arthur Vichot, ex campione francese e compagno di squadra di Pinot, che dice di dovergli molto.

Aspettavano Thibaut e Thibaut è passato per primo. Da solo, come spesso lo sono i diversi e gli scalatori.

Ma non era una passerella, nessuno gli aveva fatto un regalo: Pinot aveva attaccato sul Col de la Croix des Moinats insieme a Küng e Madouas, a oltre 80 chilometri dall’arrivo, con l’obiettivo di vincere la tappa. Si era riportato sulla fuga che Ciccone aveva imbastito insieme a Pedersen e Skjelmose per sigillare la sua maglia a pois; era rimasto a lungo tranquillo nel gruppetto di dieci che ne era venuto fuori, con un minuto di vantaggio sui big; e infine, a cinque chilometri e mezzo dalla vetta del Petit Ballon, aveva abbandonato con un paio di allunghi la compagnia di Pidcock e Barguil, gli ultimi a resistergli in salita. 

Il Pinot che giungeva al tornante col suo nome non era un simulacro del campione che fu: era un atleta in giornata di grazia, sulle strade di casa, che conosceva ogni curva par cœur e cercava di pescare il jolly quando è più arduo farlo, nel giorno in cui tutti si aspettano accada.

Nel passaggio tra due fiumi di folla mai visti, straripanti d’affetto, si perpetuava il miracolo del ciclismo: i decibel dei tifosi si trasformavano in watt, le urla ininterrotte in più incisive pedalate. In meno di trecento metri il vantaggio di Pinot sul gruppo maglia gialla aumentava di dieci secondi, arrivando al limite del minuto e mezzo. In tivù i commentatori tacevano, lasciando spazio alle migliaia di Allez! e Merci! con cui il popolo dei Vosgi spingeva per l’ultima volta il suo campione e quel che di prezioso e fragile incarnava. Grazie, gli dicevano. Grazie per essere rimasto te stesso, per non aver tradito il ragazzo che eri.

Era illuminato il volto di Pinot, riflessi dorati sulla barba di qualche giorno, e tutto era perfetto, uno dei rari momenti dell’esistenza in cui ogni dettaglio è al proprio posto, il sole in cielo e l’arnica nei campi, e si percepisce che tutto è compiuto, che forse ci si può anche salutare.

Anche perché dietro Pinot la UAE continuava a forzare il ritmo: Pogačar aveva sete di riscatto e sul Col du Platzerwasel attaccava deciso, portandosi dietro solo un Vingegaard più che sereno e un Gall in spaventosa crescita. Nel finale, staccati Pinot e tutti gli altri fuggitivi superstiti, rientravano anche i gemelli Yates, all’ennesima esibizione di coppia di questo loro Tour quasi speculare: in classifica generale chiuderanno 3° (Adam) e 4° (Simon). 

La volata finale del Markstein la lanciava Vingegaard ma la vinceva Pogačar, facendo intendere – non avevamo dubbi – che la resa non fa per lui. È certo: tornerà, ritroverà Vingegaard, se le daranno di nuovo di santa ragione nei pomeriggi di luglio.

In quegli stessi momenti, a Mélisey, dopo aver raccontato loro la storia di quell’incredibile fotografia sulla parete del suo B&B, Thibaut Pinot augurerà ai suoi ospiti buona permanenza e se ne tornerà all’aperto, dove ha sempre voluto stare. Si guarderà intorno: le capre infieriscono senza ragione su un pero, le mucche brucano serafiche l’erba, gli asini ragliano in lontananza, e lui è felice.

 

Testo: Leonardo Piccione. Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

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