Impressioni di Sepptembre
Sepp Kuss, ventinovenne statunitense della Jumbo-Visma, è il vincitore della Vuelta a España 2023. L’ha vinta, forma attiva del verbo: non gliel’hanno «fatta vincere». Nessuno ha trainato Kuss su e giù per le montagne di Spagna (e Francia); alcun machiavellico piano tattico è stato ordito per favorirlo; i suoi avversari non si sono autoeliminati come i pattinatori che contendevano l’oro olimpico 2002 al leggendario Steven Bradbury.
Sepp Kuss ha vinto la Vuelta perché, tanto per cominciare, è un ciclista formidabile, uno dei più mortiferi scalatori dell’ultimo lustro, capace di brillare allo stesso modo in tutti e tre i grandi giri, dalla prima alla terza settimana, forte della qualità più imprescindibile per ogni uomo di classifica che si rispetti: la costanza. Che però da sola non basta, infatti Kuss ha vinto la Vuelta anche (o soprattutto) perché il ciclismo è uno sport di squadra, e lui corre per la squadra di ciclismo più forte al mondo.
Il cortocircuito di questo settembre, la miccia che ha trasformato un innocuo Giro di Spagna in occasione per discettare niente meno che di etica, gratitudine e senso ultimo dello sport, discende dal fatto che quella tra sforzo individuale e gioco di squadra nel ciclismo è un’emulsione, e, per quanto le pedivelle si sforzino mulinando d’amalgamarla, la miscela delle due componenti – l’io e il noi – il più delle volte rimane precaria. A che punto, di preciso, le ambizioni del singolo devono lasciar spazio al bene collettivo?
Se il ciclismo fosse uno sport individuale, probabilmente Sepp Kuss non l’avrebbe vinta, questa Vuelta: Vingegaard e Roglič avevano qualcosa in più di lui, nel complesso. Il problema è che Vingegaard e Roglič sono compagni di squadra di Kuss, il quale per anni è stato uno dei loro principali punti di riferimento: ultimo uomo in salita, ombra, angelo custode e grimaldello nelle giornate decisive per i rispettivi trionfi.
Nel momento in cui, un mese e mezzo fa, in un accesso di ingordigia i manager della Jumbo-Visma annunciavano di voler schierare alla partenza di Barcellona i due campioni, freschi vincitori rispettivamente di Giro d’Italia e Tour de France, insieme al loro più fido scudiero, essi azionavano inconsapevoli un meccanismo che a un certo punto sembravano non più in grado di controllare, e che ha rischiato di travolgerli.
È successo il giorno dell’Angliru, quando Roglič e Vingegaard, in barba a una delle più basilari regole non scritte del ciclismo, hanno allungato in salita sul loro compagno di squadra, leader della classifica generale. Ciascuno di loro cullava il legittimo progetto di vincere la Vuelta in prima persona, perché così sta scritto nel DNA (e nei contratti) dei campioni. Quel giorno Kuss avrebbe potuto facilmente mollare: rientrato nei ranghi dopo dieci giorni in maglia rossa, si sarebbe goduto le coccole e i complimenti di sempre. Il miglior gregario al mondo.
Invece, per mezzo di una prova d’orgoglio che era a suo modo un atto di ribellione, ha tenuto duro fino alla fine. È guarito dalla sindrome dell'impostore, si è messo a ruota di Mikel Landa, provvidenziale nel ruolo di aiutante dell’ex aiutante, e si è difeso alla grandissima, più di quanto non avesse già fatto a cronometro e nelle tappe di montagna precedenti. A fine tappa ha mantenuto la maglia rossa nonostante l’attacco subito dai capitani, esponendo la fallacia di una tattica di squadra giunta al punto di evolvere in guerra aperta, lotta fratricida che avrebbe ingolosito gli entusiasti della competizione-a-tutti-i-costi ma disintegrato quel che restava della reputazione popolare del team Jumbo: perché il pubblico del ciclismo ha occhio e cuore per certe storie, e quella di Kuss contiene tutti gli elementi delle parabole che per gli appassionati di questo sport sono poco meno che sacre.
Da quando è professionista, il ragazzo di Durango ha corso in tutto dodici grandi giri, partendo sempre nel ruolo di gregario altrui: in dieci occasioni su dodici un corridore della sua squadra ha concluso sul podio finale, sei volte sul gradino più alto. E in questa Vuelta, per la prima volta in carriera, ha l’occasione di essere lui quel corridore.
Dal giorno successivo all’Angliru, e fino a oggi pomeriggio, Vingegaard e Roglič – forse sinceramente, forse facendo buon viso a cattivo gioco – hanno agito da guardie del corpo di Kuss, in uno scambio di mansioni raro ai loro livelli. La concorrenza non era esattamente agguerrita, quindi non è che abbiano dovuto difendere il compagno da chissà quali insidie: ma non l’hanno più messo in difficoltà.
La Jumbo ha così completato una tripletta che ha dell’incredibile, portandosi a casa tutti e tre i grandi giri della stagione, con tre vincitori diversi e tre propri corridori a occupare per intero il podio di uno di essi. Una collezione di record trinitari che è a un tempo storia del ciclismo e sintomo inequivocabile di un dominio ormai talmente tentacolare da risultare per certi versi (primo tra tutti lo spettacolo) preoccupante.
È una benedizione che dalla razzia iberica dei gialloneri sia uscito trionfante il garbo di Sepp Kuss, la cui gioia spaesata mette a dura prova il nostro cinismo, la nostra crescente refrattarietà a quelle congiunzioni astrali che non abbiamo più voglia di chiamare favole, e che però continuano a essere preziose singolarità spazio-temporali in cui le piccole vicende dello sport diventano universali.
Che il senso dello sport sia premiare il più forte sempre e comunque è una falsità, o nel migliore dei casi una verità parziale. Lo sport di significati ne ha infiniti: tra i più nobili c’è che talvolta le fatiche del passato sfuggono al dimenticatoio, fioriscono in modi inaspettati, e l’universo trova il modo di farcele cogliere come occasioni.
Testo: Leonardo Piccione. Foto: La Vuelta.