«Ho martirizzato questo giovanotto»
Il brano che segue è tratto da il Centogiro, la nostra raccolta del 2017 dedicata alle prime 99 (più una) edizioni del Giro d'Italia. Originariamente intitolato "Non ci credo", racconta del Processo alla Tappa condotto da Sergio Zavoli al Giro del 1966. Ma racconta soprattutto di un giornalismo fatto sulla strada, senza il timore di commettere qualche piccola cattiveria, e con l'umiltà di ammetterlo.
Non ci credo
di Francesco Bozzi
Nel 1966 Londra diventava swinging e il Giro d'Italia, per non essere da meno, decideva di partire da Montecarlo. Il bell'Anquetil, il già grande Gimondi e il giovane Motta – che poi quel Giro l'avrebbe vinto – al posto di Beatles e Rolling Stones.
Lucillo Lievore, invece, a Londra non c'era mai stato, e neanche al Giro. Fino a qualche mese prima faceva il muratore a Breganze e nessuno gli aveva spiegato che il Giro fosse parecchio duro. Gli organizzatori gli avevano dato il numero 59, e fino alla 21a tappa, la Belluno-Vittorio Veneto, nessuno se ne accorse, forse nemmeno Lievore. Quel giorno Radiocorsa ripeté il 59 all'infinito. Lievore era uscito in solitaria dal ventre del plotone ed era riuscito ad accumulare un vantaggio di 38' sul gruppo. Il solo Pietro Scandelli lo inseguiva in bici, mentre Sergio Zavoli lo puntava a bordo di una moto. Si accostò, microfono in mano.
«Una bella soddisfazione, eh Lievore?».
«Mi prendono».
«Ma non dica così, ha ancora una quindicina di minuti sul gruppo!».
«Non ci credo. Ma quanta salita c'è ancora?».
«È quasi finita. Coraggio Lievore».
«Non credo, prima o poi mi prendono».
«Ma perché lei è ossessionato da questo pensiero? Ha un margine sufficiente».
«Eh ma sono in crisi adesso».
La tappa non era affatto "quasi finita". Scandelli raggiunse Lievore e lo sorpassò senza voltarsi. Mentre Scandelli si allontanava, anche il gruppo rinveniva.
«Lievore lei è fidanzato?».
«No».
«A chi dedica questa bella prova di oggi?».
«Ai miei genitori e alla mia società».
«Le servono gli incitamenti da parte del suo direttore?».
«Non riesco a parlare, mi viene da piangere. Mi prendono, dietro».
Con il rimorso di un padre che si sente in colpa per aver mentito a un figlio in difficoltà, anche se a fin di bene, Zavoli dava pacche rincuoranti sulle spalle stremate di Lievore. Più tardi bollò il suo comportamento come una "cattiva azione". «Ho martirizzato questo giovanotto», disse al Processo alla Tappa, cercando di farsi perdonare. Lievore però non pretendeva alcuna scusa: lui, alle parole di Zavoli, non ci aveva mica mai creduto.