[Glasgow 2023] La forza di dieci cavalli

Mezz’ora abbondante dopo la fine della corsa, Bettiol ha una giacca pesante e una sciarpa al collo. Per essere il mondiale più estivo di sempre, c'è poco di estivo. Ma nelle lowlands scozzesi le stagioni sono così, tutt’e quattro nello stesso giorno, ripetutamente, confusamente. E Alberto Bettiol sembra confuso, oltre che commosso.

Ha gli occhi rossi mentre racconta quei tre giri di corsa passati da solo al comando. Lui, Alberto Bettiol da Castelfiorentino, davanti all'élite del ciclismo di oggi, la cricca di fenomeni che periodicamente ci fa domandare se non sia il caso di chiamarla l'élite del ciclismo di sempre. «Era una cosa un po' folle ma ci ho provato», dice Bettiol. «Volevo rendergli la vita più dura possibile. Volevo sognare. E ci ho creduto». 

Ci aveva creduto sin dal mattino, insieme a una nazionale italiana da subito vivace e aggressiva; poi, a 55 chilometri dall’arrivo, dopo che la caduta di Trentin l’aveva lasciato unico in maglia azzurra in quella gabbia di leoni che era diventato il mondiale, ci aveva provato in prima persona, in una magnifica incarnazione pedalata dell’esistenziale proposito di non avere rimpianti: non avrebbe avuto migliori possibilità, se avesse atteso oltre. 

Il tempo era bello quando aveva attaccato Bettiol, ma era uno dei giorni in cui nelle lowlands si affastella tutto, come se la vita avesse fretta di accadere e mostrare ogni sua sfaccettatura, i colori in mezzo ai grigi, la luce tra le ombre, il sole nella pioggia. Acquazzone e arcobaleno. Tutto insieme. Tutti insieme: dietro il fiorentino erano rimasti Van der Poel, Van Aert, Pogačar e Pedersen. Una specie di Live Aid degli interpreti delle corse di un giorno (e non solo) di questi anni. L’élite. Campioni di poliedricità che in misura diversa hanno contribuito a salvare il ciclismo dalla deriva dell’iperspecializzazione.

Perché essere soltanto uno specialista del pavé, o un uomo da grandi giri, o un velocista puro, quando si può essere più di una cosa contemporaneamente? Elogio della contaminazione.

Sgravato da orpelli tattici e mentali, il ciclismo è tornato a essere libero fluire di talento, competizione spietata interpretata con lo spirito del gioco. E grazie a loro il circuito cittadino di Glasgow è sembrato la riproposizione ingigantita di certe gare pazze che si mettono su da ragazzi, il giro intorno all’isolato, infarcito di ostacoli di ogni tipo, da ripetere finché non si è semplicemente appurato chi sia il più forte ad andare in bicicletta.

Mesi differenti, terreni differenti, tracciati differenti, abbigliamento differente: e alla fine quel che rende le corse leggendarie è sempre la maledetta voglia di mettere la propria ruota davanti a quelle degli altri, e più quel desiderio è puro, privo di fronzoli, più lo spettacolo è grandioso. Quello scozzese è stato molto più di un mondiale di ciclismo. C’era tutto dentro. Film, epopea, videogioco. Grand Theft Bicycle: Glasgow. 

Bettiol aveva al suo inseguimento gli Avengers del ciclismo moderno, e nelle sue parole del post-tappa, nei suoi occhi rossi, c'era lo sconforto di almeno un paio di generazioni di corridori che avevano cominciato a vincere (o a sperare di vincere) e poi si sono ritrovati un po’ così, esausti e confusi. Come Bettiol, o come i visitatori dell'isola di Cramond, ammirata nei primi chilometri di corsa, che possono raggiungerla soltanto quando il mare basso e stando ben attenti a imboccare la via del ritorno per tempo, perché l’alta marea può giungere quasi all'improvviso.

Quella che ha travolto il ciclismo è una marea di talento, cristallino e spumeggiante, che procede a ondate. L'ultima grande cresta si è alzata a 22 chilometri dal traguardo di Glasgow, con spruzzi bianchi velati d’arancio, come la divisa di Mathieu van der Poel.

Quando è scattato, con una scarica di watt prorompente, premeditata, preceduta solo da una singola accelerazione nei primi giri del circuito, Van der Poel ha abbassato gli occhi. Fissava un punto, ma soprattutto un istante. Nella giornata più importante della stagione, che si protraeva sfibrante da sei ore e quattrocento curve, Mathieu inseguiva un singolo istante, quello in cui l'onda si alza e travolge tutto come i kelpies, gli spiriti delle acque scozzesi che, una volta emersi, assumono le sembianze di puledri neri dalla forza di dieci cavalli.

Mathieu guardava per terra in cerca di sicurezza, della concretezza acquisita anno dopo anno, fino a questo momento, alla sua stagione perfetta. E se per fermare un kelpie occorre un proiettile d'argento, per arginare Van der Poel in giornate come questa non si sono ancora scoperti strumenti efficaci.

Non lo è stato il campione uscente Remco Evenepoel, mai davvero nel vivo dell’azione. Non lo è stato Mads Pedersen, punta adamantina di una Danimarca indiavolata. Non lo è stato Tadej Pogačar, che se ci fosse stato un altro giro in programma avrebbe chiamato l’ambulanza (parole sue). Non lo è stato Wout van Aert, che di Van der Poel è nemesi e pungolo, fuoriclasse completo come se ne son visti pochi ma che in questa fase è sempre più spesso relegato al ruolo di Poulidor del nipote di Poulidor.

Non è stato efficace nemmeno l'asfalto contro Van der Poel, uno sgambetto a 16 chilometri dalla fine da cui Mathieu si è rialzato con divisa e pantaloncino squarciati, uniche falle visibili nel vigoroso fascio di muscoli che immediatamente è tornato a essere, riassettandosi scarpino e pedale con mano tremante, una vibrazione trasmessa al piede e alla catena, e da lì, seguendo gli ingranaggi, tornata innocua alla terra. 

Da questo pomeriggio Mathieu van der Poel, il più forte ad andare in bicicletta, veste la maglia di campione del mondo su strada, quella che gli ha «quasi completato la carriera», come ha detto all'arrivo. La porterà per più di un anno, caso anomalo in un ciclismo che è definitivamente anomalo, trascendente, agitato da una distribuzione di talento che si fa fatica a ricordare.

Primo nederlandese campione del mondo dopo 38 anni e primo corridore della storia capace di vincere Sanremo, Roubaix e mondiale nella stessa stagione, da questo pomeriggio Van der Poel non ha più bisogno di alzare gli occhi al cielo per adocchiare l'arcobaleno: gli è sufficiente abbassare lo sguardo.

 

Testo: Filippo Cauz / Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

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