[SSCXWC] Non cambiare, per cambiare
C'è il cambio che ogni politico promette non appena comincia la campagna elettorale. C'è il cambio auspicato da chiunque si ritrovi stretto tra noia e fatica. C'è il "Cambio" con cui Lucio Dalla riconquistò le classifiche a inizio anni '90, trainato dal successo di "Attenti al lupo", quasi 20 anni dopo i "Changes" di David Bowie. C'è il Monte di Cambio, che si staglia sull'orizzonte dei Monti Reatini. C'è il tasso di cambio, che determina il valore delle monete sul mercato internazionale. E poi c'è il cambio; quello che ogni ciclista conosce, ma che pochi sanno spiegare. Quel gioco di leve e meccaniche che rende le salite più morbide e le volate più veloci, geniale evoluzione nella lunga storia inventiva della bicicletta. Geniale e complicata, come tutte le meccaniche, il cui contributo di gioie è ampiamente bilanciato dal jolly delle complicazioni. Il cambio che si rompe, che si blocca, che si infanga, specie quando il terreno di gara non è il comodo asfalto ma sono i prati, il pantano, gli ostacoli di Madre Natura. E allora c'è chi il cambio decide proprio di lasciarlo a casa, imbocca la via a zig-zag della semplicità e così facendo reinventa il proprio sport. E' questo filo teso dal passato remoto della bicicletta al dinamismo del futuro a raccontare un ciclocross differente, che lascia a casa i vizi di bici di ricambio e squadre di assistenza e si getta nell'abbraccio del fango, della birra, del divertimento.
Il ciclocross singlespeed -o monomarcia- si corre senza cambio, e si corre in tutto il mondo, tanto che da un decennio assegna anche il suo titolo mondiale. Una maglia iridata? No, non ancora almeno (l'UCI pare sia interessata). Ma un premio ancora più univoco: un tatuaggio, un mondiale scritto sulla pelle. Per 10 anni l'ufficiale non ufficiale campionato del mondo ciclocross singlespeed si è disputato negli Stati Uniti, senza uscire dalla west-coast; ma per lanciarsi in una nuova decade in questo 2017 ha deciso di varcare l'oceano. Nel momento della decisione sulla sede a venire, qualcuno ha alzato la mano e ha candidato l'Italia. In Europa per trovare un primo campione mondiale europeo, in Italia per raccogliere l'abbraccio di un movimento piccolo ma tenace, che nello spazio del medesimo decennio ha lasciato diversi segni con i propri battistrada. A Verona, sulle tracce di una storia di battaglie e di cambiamenti mancati. Tanto per cambiare.
Il bastione di Santo Spirito, lungo la cinta muraria della città scaligera, è un campo da ciclocross ideale. Costruito nel 1500, demolito a inizio 1800 e ricostruito trent'anni dopo per iniziativa di Radetzky, è un dedalo di muri e cammini, porte e poterne, sortite e caponiere. Al riparo dei suoi archi, in due aree coperte chiamate orecchioni, le truppe di cavalleria e artiglieria si preparavano alla controffensiva. Santo Spirito come tante altre di queste strutture, di cui l'Italia è piena e forse non solo l'Italia. Aree salvate dalle soprintendenze ma spesso destinate a parchetti decadenti, puntellate da escrementi canini, attraversate da qualche sporadico evento ricreativo, ma che potrebbero trovare nuova vita grazie alla bicicletta. Perchè non è necessaria la fortezza di Namur per allestire un percorso da ciclocross veloce e impegnativo, che si snodi tra prati, ripide discese, porticati e scalinate: i vecchi bastioni possono bastare, sono lì che aspettano di conoscere nuova vita, e la bicicletta è lo strumento ideale per ridargliela, trascinarli in un genere tutto diverso di assalti e battaglie.
Dovrebbe vigere un'atmosfera asburgica sui bastioni di Verona, ma a Santo Spirito nel fine settimana dei mondiali di ciclocross singlespeed (in linguaggio-hashtag SSCXWC) non si respira alcuna rigidità nobiliare. La partecipazione coincide con il risultato, e per quanto ogni batteria e ogni finale avrà la sua classifica e i suoi vincitori, non vi è nulla di belligerante. Lo scontro c'è, ma è figurato, immaginato, e infine deriso. La corsa è serissima, almeno per le gambe dei meno allenati: si salta e si scende a perdifiato, si salgono gradini e ci si arrotola in una lunga spirale da perdere i sensi, si rilancia tra le porte dei bastioni, si sobbalza sui ciottoli di una galleria (che per la finale si fa buia e satura di fumogeni e death metal) e si sprinta, o almeno si dovrebbe sprintare lungo il rettilineo, se non fosse che è il punto panoramico, il preferito dei tifosi, che rallentano ogni concorrente per offrirgli una birra. Qualcuno si ferma, altri no, qualcuno ne beve due, c'è persino chi se ne infila una nella maglia per il resto del viaggio, come Megan Chinburg, che così facendo si laureerà campionessa del mondo.
Un anno fa, in occasione del loro ritorno a casa a Portland, i mondiali si proposero di "fare delle corse singlespeed nuovamente delle corse", dopo anni in cui la bilancia si era spostata eccessivamente dalla parte del gioco più nonsense. Un obiettivo sottolineato dalla clamorosa presenza di Sven Nys, leggenda vivente del ciclocross, in gara sotto lo pseudonimo di Stan Nice. L'appuntamento veronese è stato il passo successivo: nessuna necessità di imitare i predecessori tra karaoke e corse coi sacchi, lo stesso desiderio di divertirsi. A cambiare (ancora una volta) è lo stile. A tenere vivo lo spirito della non-competizione sono invece i partecipanti. C'è chi si è immerso nell'ambientazione asburgica indossando un abito da damerino di corte, ma ha ritenuto necessario abbinargli un coccodrillo gonfiabile sulle spalle; chi opta su rossetto e tutù, chi passa dalle calzamaglie leopardate a costumi integrali da leopardo, chi sceglie la maglia di campione nazionale belga e chi la barba e il cappello di Mago Merlino, chi corre con la parrucca e chi con la maschera da supereroe, chi sfoggia un improbabile tenuta da bagnino e chi, consapevole delle temperature rigide, opta per quella da sub. La scelta di vestire un costume è la dichiarazione di intenti riguardo all'approccio alla corsa, tanto che una volta travestiti non si distinguono i concorrenti dagli spettatori, ne' si differenziano i corridori più o meno trasformati: c'è un'intera squadra che corre in tenuta abituale, ma si ferma a metà percorso durante la corsa per fare il pasillo con urla e braccia al cielo a chi sta più indietro.
Più indietro, dietro ai neo-tatuati Megan Chinburg e Andrea Pirazzoli, tutti gli altri sono classificati al secondo posto. Più indietro nella storia c'è un'epoca di biciclette senza cambio, quelle di Octave Lapize che gridava "assassini!" agli organizzatori del Tour colpevoli di aver obbligato i corridori ad affrontare i Pirenei, quella storia che si avvolge su se stessa come la spirale ai piedi del Bastione di Santo Spirito, proiettando il ciclismo in un futuro che ha meno bisogno di innovazioni e più di esplorazioni. Si dice che il ciclismo sia uno sport adatto per sua natura al cambiamento. I mondiali di ciclocross singlespeed fanno una proposta, in cui il cambiamento è lontano anni luce dal gattopardismo, ma diventa sopravvivenza e condivisione. E' l'inverso del "tutto cambi perchè nulla cambi" a dire che si può cambiare il ciclocross e il ciclismo tutto. Un gioco che si trasforma riscrivendo le regole del gioco, le regole ma non il gioco, dove nessuno cambia perchè tutto ancora una volta possa cambiare.
(Le foto di questo articolo sono di tornanti.cc, e sono bellissime come sempre. Qui ne trovate molte altre).