[TdF2022] L'asso sulla Manica
C’è Wout van Aert che sulla linea del traguardo della quarta tappa muove su e giù le braccia. Mima un uccello (qualcuno dice un gabbiano, i meglio informati sostengono una fenice, l’estensione degli arti suggerirebbe un albatro), e nessuno sul lungomare di Calais si sorprenderebbe di vederlo spiccare il volo per davvero.
Non ci sarebbe da meravigliarsi se, ultimato un rullaggio di una decina di chilometri, orgasmico nel suo svolgersi, la maglia gialla si sollevasse da una dimensione - quella terrena - che in giorni come questo sembra andargli stretta e muovesse bici al seguito verso l’empireo, o in alternativa anche solo verso le scogliere di Dover, al loro solito bianche e immobili oltre il Canale.
Sarebbe, questa sua ricognizione, un calzante omaggio a Louis Blériot, pioniere dell’aviazione e primo trasvolatore della Manica. Baffo alla Magnus Cort (o forse è Magnus Cort ad avere un baffo alla Louis Blériot?), l’ingegnere francese prese il volo da Calais alle 4:41 del 25 luglio 1909, mentre era in corso il 7° Tour de France della storia, e toccò terra presso il castello di Dover 36 minuti e 30 secondi dopo, con elica e carrello del suo monoplano in frantumi ma tutte le ossa al loro posto - e soprattutto in tasca le 1000 sterline di premio messe in palio dal Daily Mail.
Non era in vena di omaggi quest’oggi Van Aert. E l’azione con cui s’è liberato, scrollandoseli di dosso al modo di certi insetti pruriginosi, di chiunque abbia provato a prendere la sua scia sulla Côte du Cap Blanc-Nez, contiene molto poco della grazia associata tradizionalmente al volo. Sono gli scalatori, nell’apparato metaforico del ciclismo, ad essere dotati di protesi alate, la loro levità sulle montagne a far immaginare geometrie esistenziali.
Testo: Leonardo Piccione