Girmay fa sul serio

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Dobbiamo ancora capire bene in che modo scriveremo il suo cognome, ma l’impressione è che lo scriveremo spesso. 

Il profilo Twitter ufficiale propone Girmay, mentre su Instagram acquista una e finale e diventa Girmaye. La traslitterazione internazionale si lancia talvolta in un Ghirmay francamente dubbio, suggerendo di lasciar legiferare sulla questione il sito della Intermarché Wanty-Gobert, la sua squadra, il quale si schiera per la prima versione, quella senza e e senza h.

Girmay, dunque. Biniam "Bini" Girmay, ciclista nato ad Asmara il 2 aprile del 2000 e destinato a far segnare una lista di primati molto lunga. 

Uno, storico, l’ha già ottenuto a Leuven lo scorso 24 settembre, allorché, classificandosi secondo alle spalle di Filippo Baroncini nella gara Under 23, è diventato il primo africano nero a conquistare una medaglia ai Campionati del Mondo su strada di ciclismo. 

Ci sono tutte le premesse per credere che altri record simili, ma persino superiori in prestigio, non tarderanno ad arrivare. In molti nell’ambiente pensano infatti che Girmay presto o tardi sarà il primo africano nero a: vincere una gara WorldTour; piazzarsi sul podio di tappa in un Grande Giro; vincere una tappa in un Grande Giro; indossare la maglia di leader in un Grande Giro; piazzarsi sul podio in una grande classica di un giorno; vincere una grande classica di un giorno; piazzarsi sul podio mondiale nella categoria Élite; vincere un mondiale nella categoria Élite.

I più ottimisti e/o fantasiosi ritengono che quest’ultima eventualità non possa che realizzarsi nel 2025, quando i Mondiali di ciclismo avranno per la prima volta luogo in Africa (in Ruanda, per la precisione).

Previsioni e speranze a parte, la certezza sotto gli occhi di tutti è che nel ciclismo non si è mai stati così vicini alla realizzazione del mito, annunciato da decenni e poi come calcificatosi nel tempo, del corridore africano vincente. Non solo competitivo – in grado di portare a termine un Tour de France, di andare in fuga in un Tour France, di vestire la maglia a pois per un giorno e così via – ma proprio vittorioso, e al più alto livello. 

Ieri pomeriggio, al Trofeo Alcúdia (la seconda prova del Challenge Mallorca 2022), Biniam Girmay ha battuto in volata Ryan Gibbons e Giacomo Nizzolo con più di una bici di vantaggio. Più staccati nella top ten altri grossi calibri quali Cortina, Matthews e Ackermann.

Ora, se sul valore assoluto di un Trofeo Alcúdia nella grande leggenda del ciclismo si può avere di che obiettare, più difficile risulta mettere in discussione la linearità del percorso di crescita in cui si è inserita questa vittoria di Girmay, che ha definitivamente lasciato qualche bici dietro di sé anche lo status di promessa.

La sua prima esperienza da professionista risale al 2020 con la Nippo-Delko, ma delle sue qualità si vociferava da molto prima: dalla trafila giovanile al Centre Mondial du Cyclisme di Aigle, quanto meno, nel corso della quale aveva conquistato due titoli africani juniores (sia in linea che a cronometro) e, soprattutto, una volta si era preso il lusso di battere un altro predestinato, anzi il predestinato se ce n’è uno tra i pedalatori nati nell’ultimo anno giubilare.

Il giorno in cui superò Remco Evenepoel, Girmay se lo ricorda «come se fosse ieri»: era la prima frazione della Aubel-Thimister-Stavelot, la gara che certificò non solo il potenziale di Biniam, ma anche il suo peculiare feeling con il Belgio e le sue corse. 

«Non vedo l’ora di scoprire tutte le classiche del nord», ha dichiarato meno di sei mesi fa in occasione dell’approdo alla belga Intermarché, che l’ha messo sotto contratto fino alla fine del 2024.

In questa stagione, specialmente in occasione delle classiche di primavera, l’eritreo correrà insieme a Alexander Kristoff, tra le ragioni del cui ingaggio figura specificamente il contributo che potrà dare in termini di esperienza e sacra malizia ai giovani della squadra.

Dal punto di vista tecnico, in aggiunta all’impressionante spunto veloce e alla naturalezza con cui ha provato di sapersi destreggiare nella fase finale di una volata, scegliendo tempi e posizione al modo di uno sprinter navigato, Girmay va bene a cronometro ed è in grado di superare indenne le salite corte e non impossibili, qualità questa che gli ha permesso di arrivare 2° al Trofeo Laigueglia nel 2020 (alle spalle del solo Ciccone) e che suggerisce come, meglio ancora della Parigi-Roubaix, il Monumento più affine alle sue corde sia la Milano-Sanremo – non a caso la prima corsa che cita quando gli si chiede di mettere in ordine i sogni che conta di realizzare in futuro.

Nel futuro di Girmay c’è sicuramente anche il Giro d’Italia, che correrà per la prima volta il prossimo maggio. «Le aspettative su di me sono sempre più alte, ma lo sono anche le mie motivazioni», ha dichiarato di recente, dimostrando che il ricco bagaglio con cui ha fatto irruzione nel ciclismo dei grandi non difetta nemmeno di personalità. Una piena consapevolezza nei propri mezzi che in corsa diventa «pazzia», come la definisce lui, e che giù dalla bici sembra estendersi fino al proprio ruolo nella storia di questo sport. 

Non mancheranno le occasioni per approfondire la sua vicenda personale, per sapere di più di una famiglia in cui, racconta, «sembriamo tutti un po' dei vecchi», della passione ciclistica ereditata dal fratello, della sua prima figlia Liela, un anno il prossimo marzo. Per capire se e in che modo la sua parabola si inserirà nella narrazione che la dittatura di Isaias Afewerki propone dell’Eritrea, l’ultimo Paese al mondo per libertà di stampa.

Per il momento, il profilo longilineo di Biniam Girmay è un concentrato purissimo e in gran parte inesplorato di ambizioni personali e speranze universali: dopo la conquista dell’argento iridato nelle Fiandre, spiegò con orgoglio che la sua medaglia valeva moltissimo «per tutta l’Africa». 

La sensazione, insomma, è che per il ciclismo africano Girmay possa davvero essere l’uomo del destino; che sia l’incaricato ad arrivare in fondo alla strada aperta nel corso degli anni da riferimenti come Daniel Teklehaimanot, Natnael Berhane e Merhawi Kudus, suoi connazionali, ma anche, più in generale, da Kévin Réza, Yohann Gène, Tsgabu Grmay, Nic Dlamini, dai loro piccoli e grandi risultati, delle loro piccole e grandi battaglie di sopravvivenza in uno sport che non fa della diversità uno dei propri vanti maggiori. 

Per la prima volta nella storia di questo sport c’è un ciclista dalla pelle nera in grado di competere con i migliori del gruppo in alcune delle corse più importanti del calendario. Di più: di batterli.

E il ciclismo dovrà fare i conti non solo con lui, sui viali delle città in cui ha già cominciato ad alzare le braccia al cielo, ma anche, a un livello inedito, con certe sue profonde anacronistiche contraddizioni che, al pari dell’attesa quasi messianica di un continente bramoso di campioni e biciclette, potrebbero finalmente avvicinarsi a una desiderabile linea d'arrivo.

 

 

Articolo pubblicato il 28 gennaio 2022. A cura di Leonardo Piccione. Foto in copertina: Intermarché Wanty-Gobert / Alessandro Volders.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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