Il treno di Forlì

Sfogliando il romanzo del ciclismo si fa spesso sosta sulle gesta di uomini che furono autori di imprese radiose, talune uniche nella storia, finendo inevitabilmente per entrare nell’Olimpo dei leggendari. 

Ercole Baldini, detto il Treno di Forlì, ha lasciato ai palati fini del pedale la soddisfazione di trovare in lui uno stile inconfondibile, uno straordinario missaggio di potenza e compostezza, unite a una flessibilità della schiena peculiare nei ciclisti eccellenti. Un insieme di facoltà che l’hanno reso un campione capace di impreziosire il mezzo-bicicletta, e che fanno dire ancora oggi a chi scrive quanto tranquillamente Baldini possa essere considerato fra i primi cronoman di tutti i tempi, forse il migliore su percorsi pianeggianti e rettilinei. Insomma, un Treno. 

Ci si può chiedere perché tanta grandezza abbia partorito un segmento temporale di eccellenza non troppo duraturo, ma nessuna risposta è più convincente dell’importanza di aver raggiunto il massimo splendore attraverso tinte d’unicità così distinguibili. 

Nel suo terzo anno di grazia, il 1958, Ercole vinse il Giro d’Italia dipingendo vari affreschi, un paio davvero strabilianti. Il 26 maggio, in una giornata afosissima, percorse i 60 km della cronometro di Viareggio a una media vicina al record dell’ora su pista. Seppellì di minuti gli avversari, ma, soprattutto, spedì oltre sessanta corridori fuori tempo massimo: più del 50% dei partenti. Patron Vincenzo Torriani, preoccupato di ritrovarsi a metà Giro con la corsa più che dimezzata, riuscì nell’impresa di convincere la giuria a riammetterne 49, ma in 15 dovettero ugualmente andare a casa.

Il 2 giugno, nella tappa che da Cesena si chiudeva sull’erta di Bosco Chiesanuova, Baldini si trovò a recitare un copione tutto nuovo. Sulla salita finale dapprima rintuzzò diversi attacchi e poi, grazie al suo passo, propiziò una fuga che, oltre a lui, comprendeva Gaul e Bahamontes, il belga Brankart e il giovane abruzzese Silvestro La Cioppa. Consapevole di essere ormai leader della corsa – la maglia rosa Agostino Coletto era in nettissimo ritardo – aveva deciso di chiudere quella tappa senza altri sussulti, ma i continui scatti dei compagni d’avventura lo provocarono. 

E così Ercole partì con una delle progressioni più terrificanti di cui io abbia memoria, facendo il vuoto e andandosi a prendere la tappa e una maglia rosa che avrebbe indossato fino a Milano.

 

di Maurizio Ricci. Estratto da "il Centogiro - 99 storie (più una) dal Giro d'Italia" (Ediciclo Editore, 2017)

 

 

 

 

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