Le bici sono le nostre metà – Cancellara, Colnago, il destino

È appena uscito, per 66thand2nd, "Ernesto Colnago - Il Maestro e la bicicletta", in cui il grande telaista si racconta a Marco Pastonesi ripercorrendo le tappe della sua straordinaria traiettoria ciclistica. Pensieri e certezze rotonde, filosofia e religione del lavoro, fino alla nuova esplosione delle due ruote.

Di seguito vi proponiamo integralmente l'introduzione al volume, firmata da Fabian Cancellara.

 

 

Le bici sono le nostre metà: metà uomini (o donne) e metà bici, così come i mitologici centauri erano metà uomini e metà cavalli.

Le bici sono i nostri strumenti: strumenti di lavoro, così musicali che a modo loro alcune suonano e cantano, altre fischiano e cigolano. Le bici sono i nostri sogni: sogni di libertà e gloria, sogni di voli e vittorie. Le bici sono le nostre compagne: compagne di strada e vita.

La mia prima bici la trovai in garage. Avevo tredici anni. Me ne innamorai. E lei, la bici, mi cambiò il destino.

Una bici è un miracolo di tecnologia, un oggetto del desiderio, un’opera d’arte. È, soprattutto, un passaporto universale. Su una bici, per una bici, con una bici, grazie a una bici incontriamo il mondo.

Corse e corridori, amicizie e amori, tornanti e ponti, valichi e lungomari. Eppure una bici, apparentemente, è – più o meno – quella di sempre: due ruote, una sella, un manubrio. E – non commettiamo lo stesso errore dell’inventore, il barone Karl Drais – anche un paio di pedali.

E invece non è così, non è proprio così. Ogni bici ha un’anima, e l’anima è quella di chi la immagina, la progetta, la crea, e infine le dà il suo nome. Così, la prima volta che andai a trovare Ernesto Colnago ne rimasi folgorato.

Non dall’azienda, che pure era un modello di organizzazione ed efficienza. Non dal marchio, dai modelli, dai prototipi, che pure rappresentavano il numero uno del mercato mondiale. Ma da lui, la sua semplicità, la sua spontaneità, in una sola parola: la sua umanità. Tant’è vero che mi aveva pregato – così come si faceva a scuola nei momenti più importanti o delicati – di andare a Cambiago accompagnato dai miei genitori.

Se all’inizio ero rimasto un po’ sorpreso dalla sua richiesta, ma a quel tempo – ero un ragazzo – mi sorprendevo facilmente, solo più tardi avrei compreso la qualità e l’altezza di quella voglia di conoscere papà Donato e mamma Rosa. Ernesto voleva sapere da dove venivo, quali erano le mie origini, le mie radici, i miei valori. Quelli umani. La faccia, le mani, la pelle. Lo sguardo. Forse l’accento.

E ci presentò la sua famiglia: cominciando da Paolo, il fratello, e continuando con tutti i collaboratori, per finire con le sue biciclette. Insomma, era tutta una famiglia, una sola famiglia, una sola grande famiglia, fatta di uomini (e donne) e biciclette, che parlavano la stessa lingua, che avevano la stessa storia, che portavano lo stesso cognome. Colnago, appunto.

Il ciclismo è uno sport che non divide, ma unisce. E si rimane uniti anche quando le strade si dividono.

La mia università fu alla Mapei. Un corso triennale, il 2000 come stagista, il 2001 e il 2002 nella squadra dei giovani, delle speranze, degli emergenti. Era un progetto, quello voluto da Giorgio Squinzi con Aldo Sassi ed Ernesto Colnago, che anticipava il futuro: nella filosofia, nell’impostazione, nell’organizzazione, nelle squadre, nello spirito internazionale, ovviamente anche nell’abbigliamento e soprattutto nelle biciclette.

In quei tre anni non avevo vinto granché, solo crono e qualche corsa a tappe, ma mi sentivo stimato. E la stima, reciproca, rimase intatta anche quando passai in un’altra squadra. Quella stima era nata, con Colnago, in fabbrica, insieme ai suoi familiari, la sua gente, le sue bici, e si era consolidata forse per il mio modo di correre o forse perché avevo dimostrato di avere non solo gambe, ma anche testa e cuore.

Da allora, e sono passati quasi vent’anni, ogni tanto Colnago e io ci telefoniamo. Così, per sapere come va e come stiamo, dove siamo, che cosa facciamo. Così, per avere notizie delle nostre famiglie. Così, per affetto, per amicizia, per passione. E tutte le volte ci lasciamo con una reciproca promessa: se hai bisogno...

Ma certi bisogni non si possono soddisfare. Non dimentico la telefonata quando è morta sua moglie Vincenzina. E neppure la telefonata quando è morto suo fratello Paolo. Se la bicicletta rappresenta la nostra vita, quei giorni le ruote erano a terra.

Come faccio una telefonata a Colnago, così la faccio anche a Eddy Merckx. Due minuti a colloquio con la storia, non la storia del ciclismo, ma la storia dell’umanità. E in loro c’è ancora purezza, c’è ancora candore. So – lo so – che dopo che l’ho chiamato Colnago è felice. Mi ha chiamato Cancellara, esclama, come se non fosse mio il privilegio, l’orgoglio, il vanto.

La verità è che non dimentico mai da dove sono venuto. E Colnago è stato uno dei miei professori nell’università del ciclismo e della vita. Geniale. Perfezionista. Sognatore. Umano. Bravo, troppo bravo. Unico.

 

Fabian Cancellara

da Ernesto Colnago - Il Maestro e la bicicletta. Conversazione con Marco Pastonesi
© 66thand2nd, 2020
Foto in copertina: Graham Watson

 

 

 

 

 

 

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