[Giro 2023] Classifica appunti

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Chissà se qualcuno ha spiegato ai ragazzini di Borgo Valsugana che cosa sta per succedere. Che i quattro corridori che a breve passeranno, intendo dire, sono davanti a tutti ma non si può dire che stiano vincendo. Chissà se hanno raccontato loro cos'è una fuga nel ciclismo: se la loro maestra ha usato come termine di paragone il marinare la scuola ha fatto benissimo. Chissà se gli hanno detto anche com'è che si chiamano, quei quattro. Chissà se importa: il Giro d'Italia ha fatto evaporare al sole di maggio due ore di matematica e loro sentono di voler bene a quei quattro ciclisti anche solo per questo. 

Il Giro passa e per il tempo di uno spuntino le provinciali diventano ritrovi di famiglie e vecchi amici, persino le isole spartitraffico sono ambiti spazi ricreativi, sul paletto di una direzione obbligatoria - località Sasso Stefani - qualcuno ha poggiato la sua tazzina di caffè, si direbbe non il primo della giornata.

Anche due signore trolley-munite che aspettano il treno a Tezze di Grigno adesso guardano in direzione opposta ai binari, distratte dai clacson delle ammiraglie o comprensibilmente infastidite dal marchigegno messo a punto più avanti da un giovanotto sulla ventina, che ha collegato un compressore a una trombetta e produce compiaciuto un baccano infernale.

Sono giunti a bordo strada produttori di mobili, titolari di agenzie funebri, tutti i dipendenti della Marion in servizio, ricambisti di materiale elettrico, fornai e badanti, più una quantità di uomini e donne di tutte le età che non conosco e che stamani si sono svegliati come talvolta ci si sveglia il giorno delle elezioni o della cresima di un nipote, rovistando nei cassetti in cerca della polo o dello scialle del colore adeguato, che oggi è il rosa.

Agitano le braccia e ci scattano foto, forse gli fa simpatia la nostra auto blu con le bici sul tettuccio, o forse sperano che fotografando noi riescano a immortalare i ciclisti che ci seguono, e che in questo tratto in discesa vanno così veloci da battere i tempi di reazione degli smartphone e sfuggire alla cattura. Li scorgo anch'io adesso, in un angolo dello specchietto retrovisore, puntini colorati le cui identità mi vengono rivelate da Radiocorsa e facilitate dalla frequentazione diretta di queste settimane.

Il primo dei quattro è Charlie Quarterman detto quarterback, il busto spazioso non mente. Dietro c'è Thomas Champion, alto e sottile, una stella filante su pedali. Seguono il celestino di Diego Pablo Sevilla, colorito olivastro, e il blu polvere di Senne Leysen, biondino. Le loro probabilità di vincere sono prossime allo zero: lo sanno, gli sta bene, non è un motivo valido per rinunciare a dare ciascuno il proprio contributo a questo tentativo, questo futile progetto di evasione che resterà nelle memorie di loro quattro, di certi dettagliati almanacchi di ciclismo e forse di un paio di ragazzini di Borgo Valsugana. Poi basta.

Sono appena rientrato dalla mia sesta Corsa Rosa e anche questa volta ho affrontato l'hangover post-Giro provando a dare una qualche organizzazione a foto, spigolature e annotazioni sparse che mi sono segnato nelle ultime tre settimane. Gli stralci sulla fuga della tappa numero 17, la più piatta e meno decisiva di tutte, erano in cima alla lista, un po' per caso un po' per il curioso fascino che esercitano su di noi la fatica sprecata e il tempo perso. Tutto il resto lo trovate di seguito.

La prima foto che ho scattato (a Fossacesia Marina, con tutti i nomi, le attese e le speranze ancora al loro posto):

La prima foto che ho scattato a Derek Gee (prima ancora della sua prima fuga, quando ero l'unico interessato a intervistarlo e a chiacchierare con lui di cose aviarie):

Una definizione di ciclismo tra le più fulminanti che abbia sentito

«Uno sport troppo duro per farlo a ca**o» (Simon Clarke, argomentando circa il desiderio che i suoi figli non seguano le sue orme in quanto a carriera ciclistica).

 

Una foto che non ha portato troppo bene

Quella scattata alla famiglia Evenepoel pochi minuti dopo la cronometro di Cesena, quando ancora non sapevamo che sarebbe stata l'ultima apparizione di Remco al Giro 2023 e che tra virus e maltempo il Giro 2023 stava per trasformarsi in uno spin-off di Squid Game.

Un cerimoniere che mi ha fatto pensare

C’è un signore in giacca e camicia accanto al podio delle premiazioni. Snello, pare essere in buona forma. Ha meno di quarant’anni, si direbbe essere stato da poco dal barbiere. Elegante ma sportivo, sembra conoscere a menadito il protocollo (dove posizionarsi, in che direzione guardare, quando sorridere) ma ciò non gli impedisce di avere una certa aria da novizio. Ha lo smartphone nella mano destra, forse sta facendo una diretta Instagram. Dev’essere una delle prime volte che sale su quel palco con uno smartphone e che il suo nome viene annunciato prima di quello del premiato.

Perché non è lui il premiato: lui premia. Tutti i giorni, per tre settimane. Dà l’impressione di divertirsi, se non proprio di godersela. I giornalisti lo cercano molto meno che in passato, non ha nessuna pressione da sopportare, alcuna attesa da realizzare. Sorride a tutti.

Gli ex campioni non sono uomini malinconici: sono uomini. Se talvolta ci infondono una punta di tristezza, questa non ha a che fare con la loro vita ma con la nostra, con l’illusione che almeno con i nostri idoli il tempo non dovrebbe averla vinta. Per tre settimane ho condiviso lo stesso lato delle transenne con Vincenzo Nibali e mi sono sentito un po’ più vecchio.

 

Due calembour che ho apprezzato

  • il sorbetto al Pom-Pelmo, preparato dai gelatieri zoldani all'ombra del monte Pelmo
     
  • la birreria Robe di Campa di Valstagna, località del Gruppo della Campa

 

Una domanda che ho fatto a Tao Geoghegan Hart (e la risposta ricevuta da lui, seduto sugli scalini del bus della Ineos, il volto parzialmente nascosto da una tendina)

- Pensi di essere un ciclista del popolo?

- Tutti i ciclisti sono ciclisti del popolo. Se guardiamo la storia del ciclismo, questo è sempre stato uno sport del popolo. Arriviamo sulle soglie delle case, giriamo per tutto il mondo. Questa è la bellezza del ciclismo: chiunque può prendere una bicicletta e pedalare sulle strade dove noi professionisti pedaliamo, e provare quello che noi proviamo.

Tre versi di canzoni ascoltate spesso e volentieri

  • Ne bomo Šteli ur do zore / Preskakovali bomo gore
    Sprejeli, da smo večni samo in srečni samo / Ko objema nas nebo

    Fino a che il sole sorge / Noi non conteremo le ore
    Salteremo oltre le montagne / Per essere abbracciati dal cielo

    (dal pezzo sloveno in gara all'Eurovision Song Contest 2023, eseguito dai Joker Out e intitolato come un motto caro a Primoz Roglič: Carpe Diem)
     

  • Come il vento di primavera non si ingabbia nella rete
    Come i vostri capelli, come i sorrisi
    Come l'aria quando corre in bicicletta

    (da Staffette in bicicletta di Vinicio Capossela, brano ispirato ai nomi di partigiane letti dall'autore su un muro in cemento lungo la pista ciclabile di Scandiano, sede di partenza della 10a tappa del Giro)
     

  • Se il mondo è matto / Che cosa c'è di strano
    Matto per matto / Almeno noi ci amiamo

    (da Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri, con tutta probablità canzone ascoltata più dai corridori del Giro 2023 che da quelli del Giro 1981, anno della sua uscita)
     

Un film che mi è venuta voglia di rivedere dopo i noti fatti della Atripalda-Salerno
 
Il potere del cane.

 

La seconda foto che ho scattato a Derek Gee (dopo la sua prima fuga, quando un secondo microfono si è aggiunto al mio oltre la linea d'arrivo):

Cinque cose variamente belle che ho udito

  • La quiete tra un paesino e l'altro in una tappa pianeggiante
     
  • La brezza sibilante tra i festoni azzurri in una via qualsiasi dei Quartieri Spagnoli
     
  • Stralci di conversazioni captati passeggiando in mezzo al pubblico (per esempio a Bergamo, alla fine della seconda settimana: Domani questi si riposano, altrimenti muoiono!)
     
  • Gli strilli lamentosi dei freni a disco sotto la pioggia
     
  • E per l'appunto la pioggia, i gioccioloni sul parabrezza, la nebbiolina in alta montagna, la grandine sulla giacca a vento, i tuoni sul Bondone, tutte le pozzanghere centrate per sbaglio
     

Cinque cose buone che ho assaggiato

  • la zizzona del Caseificio La Fattoria, a Battipaglia
     
  • il babà della pasticceria Galiero, a Napoli
     
  • gli amaretti Carrosio, a Voltaggio
     
  • la raclette della Laiterie au Petit Chalet, a Crans-Montana
     
  • del frico in comode monoporzioni, a Tarvisio

 

Un corridore che mi mancherà

Poi c’è Thibaut Pinot. Alleggerito, indemoniato, criptico. Difficile dire se per la testa gli passino troppe cose o nessuna. L’effetto è lo stesso: al Giro è arrivato uno dei Pinot più pinottiani di sempre, dove per pinottiano s’intende qualsiasi atteggiamento atto a celebrare l’esistenza in tutte le sue sfumature, ad abbracciarla negli alti e nei bassi e in tutto quel che sta nel mezzo.

Il suo modo di interpretare il Giro 2023 è per lunghi tratti pura antinomia: attacca perché solo la vittoria è bella, poi però gareggia come se gli interessasse tutto tranne che vincere. Spreca, impreca, butta via. Gesticola, eccede, s’innervosisce, piagnucola.

Eppure nelle sue contraddizioni, nella sua voglia matta e quasi disperata di lasciare il segno desiderato nell’ultimo Giro della carriera c’è un sentimento incandescente, l’insopprimibile desiderio di essere ricordati. Il ciclismo di Pinot è un tuffo nei pregi e soprattutto nei difetti di ognuno, ed è per questo che lascia un segno anche quando teme di non averlo lasciato.

Cinque sguardi che parlavano da soli

  • Quello luminoso di Nico Denz a Venosa, nel momento in cui ha individuato i nonni materni nei pressi del foglio firma, è tornato indietro di alcuni anni e, bici al seguito, ha scavalcato le transenne per abbracciarli e passare venti minuti con loro. Nessuno dei tre poteva immaginare in quel momento che la settimana successiva sarebbe stata la più incredibile della carriera di Nico, capace di vincere due tappe in tre giorni e sintetizzare la sua felicità in quattro semplici parole: Sono oltre le nuvole.
     
  • Quello commosso di Walter Marchegiano, ottantenne nipote di Rocky Marciano, a Ripa Teatina, mentre ci rilasciava un'intervista sotto casa e ci attribuiva meriti non completamente nostri: Grazie, portate avanti una cosa entusiasmante.
     
  • Quello spaesato di Bruno Armirail nel truck delle conferenze stampa a Cassano Magnago, allorché, lui che in carriera non ha mai vinto una corsa in linea, si è trovato ad assolvere ai compiti riservati niente meno che alla maglia rosa e, prima ancora di rispondere, con gli occhi sembrava porne lui di domande: Cosa è successo? Dove devo guardare? Che me ne faccio di queste mani?
     
  • Quello preoccupato e insieme divertito di Charlie Quarterman, lui che sta provando a imparare l'italiano con Duolingo, quando a Oderzo, per la terza volta nel corso del Giro, sono andato a intervistarlo: Oh ciao, domande in italiano?
     
  • Quello supplice di Alexandre Delettre nel giorno di riposo a San Giovanni in Persiceto, quando ha accettato di farsi intervistare in inglese ma, pentitosi immediatamente dopo, ha preso a rivolgersi al divertito Thomas Champion, suo compagno di stanza, per ricevere un qualche tipo di conforto prima di soddisfare le mie innecessarie curiosità. Il t'a demandé de la cuisine italienne... Tu peux dire pasta!

 

La terza foto che ho scattato a Derek Gee, o sarebbe meglio dire con Derek Gee (a Sierre, dopo la sua prima fuga in una tappa di montagna, quando era ormai chiaro che nemmeno le salite lo scalfiscono a questo qua):

Due domande che ho fatto a Ignatas Konovalovas (e due sue risposte che sintetizzano la durezza del Giro 2023)

- Ciao Ignatas, come stai?

- Ahora mismo? Ahora mismo bien cansado, pero bien.

- Come mai oggi mi rispondi in spagnolo?

- Ah, no sé! Perché sono stanco...
 

Un mistero che non sono stato in grado di risolvere

Com'è possibile che Ben Healy sia nato nel settembre del 2000.

Un concetto che vorrei poter applicare a tutte le situazioni della vita in cui mi sento fuori luogo

Il peso mentale, evocato da Derek Gee a Crans-Montana, dopo essersi piazzato quarto in una tappa di montagna, alle spalle di tre scalatori puri: "Mi sono guardato attorno e ho visto che i miei compagni di fuga pesavano tutti tra i 56 e i 63 chili. Io peso 75. C'era qualcosa che non tornava, non avrei dovuto essere lì. Allora mi sono convinto mentalmente di pesare 58 chili."

Dieci tratti caratteriali che mi piacerebbe far miei

  • Il tatto dei massaggiatori, che nel ciclismo oltre che massaggiatori sono taumaturghi, psicologi, confessori, consiglieri spirituali, sparring partner. Sanno esattamente cosa dire e come dirlo, cosa fare e quando farlo. Lasciano a Simon Clarke il tempo necessario a piangere, mettono un braccio intorno a Thibaut Pinot solo dopo che lui si è alzato da terra, si uniscono alle scatenate urla di vittoria di Nico Denz, asciugano il viso a Marco Frigo non prima che lui abbia fatto un cenno, allungano Fanta o Coca a seconda di gusti che non hanno bisogno di ricordare, in una liturgia della gioia e del dolore fatta di regole non scritte e dosi non convenzionali di empatia.
     
  • La giovialità di Pascal Ackermann, che sorride ogni volta che può. Sorride perché è tornato a vincere, sorride perché ha fatto del suo hobby un lavoro, perché a bordo strada ha visto mamma e papà, zii, cugini e persino la nonna, sorride anche se le montagne non le digerisce, sorride anche dopo essere caduto proprio in fondo, sul rettilineo romano: afferma che non è il miglior modo di finire però succede, ha la maglia strappata e un rivolo di sangue sul gomito, qualcuno gli ha passato una Peroni da 66, dice che è buon antidolorifico, stringe i denti e sorride.
     
  • La cura dei dettagli di Remco Evenepoel, che al termine della conferenza stampa di Melfi si accorge con la coda dell'occhio che stanno arrivando moglie e fotografi, e decide di trasformare la vetrata laterale del truck in specchio, sistemarsi prontamente ciuffo e maglia rosa, sfoderando tutta la sua fotogenicità.
     
  • Il buonumore di Yukiya Arashiro, trentottenne campione nazionale giapponese, che ha corso e concluso la bellezza di sedici grandi giri in carriera: si fa intervistare con le mani sui fianchi, si emoziona quando parla del suo cane e ride sonoramente, trasformando l'anonimo parcheggio degli autobus di Teramo in un luogo felicemente sospeso, almeno per cinque minuti.
     
  • La fedeltà a se stesso di Alessandro De Marchi, in grado di correre uno dei Giri più consistenti della carriera a 37 anni, disperdendo per strada i dubbi (degli altri) e perpetuando la consuetudine per cui se una tappa ha l'apparenza di una tappa alla De Marchi, De Marchi non si nasconderà.
     
  • La seraficità di Einer Rubio nella salita verso Crans-Montana, quando si è prima goduto a debita distanza lo spettacolo della zuffa pedalante tra Pinot e Cepeda, poi li ha superati tutti e due con un mezzo ghigno e qualche residuo di popcorn tra i denti.
     
  • L'elasticità di Filippo Zana, completamente a suo agio nell'evolversi da gregario per le tappe di media montagna a gregaro per i tapponi dolomitici, da fuggitivo generoso e basta a fuggitivo generoso e vincente, da giovane con talento a giovane con talento e capacità di metterlo a frutto, e scusate se è poco.
     
  • L'esuberanza di Jonathan Milan, che non ha nessun timore dell'esordio, nessun timore del suo primo Giro, men che meno dei suoi avversari, non ha paura di vincere e di sbagliare, e dio solo sa quanto sia prezioso sbagliare a ventidue anni.
     
  • Ma anche la mitezza di Alberto Dainese, che parla a bassa voce nonostante sappia perfettamente che un velocista deve farsi sentire, un velocista a volte deve sbattere i pugni sul tavolo però io sono troppo timido, dice Dainese, che preferisce parlare per tramite dei risultati: e quando a Caorle il risultato arriva, allora sì che urla, diamine se urla.
     
  • E infine l'immortalità di Mark Cavendish, che non sono sicuro sia un tratto caratteriale ma nel dubbio mi piacerebbe in ogni caso farla mia.
     

L'ennesima foto che ho scattato a Derek Gee (dopo l'ennesima fuga e il quarto secondo posto, quando il pubblico a bordo strada lo chiamava per nome e tutte le televisioni del mondo lo avevano intervistato, e lui dei suoi piazzamenti cominciava a esser stufo - non che questo gli avrebbe impedito di provarci ancora, beninteso):

Uno scambio di battute illuminante (col gestore dell'albergo Miravalle di Auronzo di Cadore)

- Molto utile questo contenitore, così se desideri un goccio d'acqua puoi provvedere da solo!

- È un dispenser di grappa per correggere il caffè, ne vuole?

Due repliche di una sincerità spiazzante

- João Almeida, perché ti sei fatto crescere i baffi?
- Perché sì.

- Karel Vacek, quanto è importante questo secondo posto al Gran Sasso?
- Non è importante. Mi ha salvato la vita.

 

Un pomeriggio che non dimenticherò

Lussari, poco alle diciotto. Le ombre si allungano, la catena di Roglič è appena saltata e le prospettive a breve termine sulla nostra tenuta cardiaca sono entrambe fosche. Da un lato aleggia su Primoz lo spettro della disgrazia definitiva: l’imprevisto che ti piomba addosso nel giorno sognato, tra la tua gente, nel momento della verità, giusto in tempo per sottrarti alla vittoria della vita e consegnarti al regno del rimpianto eterno.

Mancano poco più di due chilometri e Roglič sembra in procinto di vincere la cronometro più agrodolce della sua carriera: sta volando, ma non abbastanza da ribaltare il Giro. Il lento progredire del suo vantaggio su Thomas (quattro; sei; dodici; quattordici; sedici secondi) suggerisce che - cortesia del salto di catena - la sua rincorsa si fermerà a pochi secondi dalla maglia rosa, gettando le fondamenta per un nuovo psicodramma.

Insopportabile pensiero: per lui, per le migliaia di tifosi sloveni, per noi. Dove si trovano le parole per spiegare la sventura quando non si stanca di infierire? In che modo si narra di un destino che si diverte ad accanirsi, ammesso che il destino esista e non sia solo un altro modo per definire l’insensatezza di certi eventi che punteggiano la nostra umana transitorietà? Si riprenderebbe, Primoz, da una batosta simile se non superiore a quella delle Belles Filles, dall’eterno ritorno del dramma sportivo? Non sarebbe troppo anche per un punching ball umano come lui?

Dall’altro lato, meno probabile ma non ancora impossibile, fa capolino l’eventualità opposta, ovverosia che nonostante tutto Roglič ce la faccia: che realizzi l’impresa - una memorabile impresa - e scarichi l’ingombro della sconfitta su Thomas, Geraint Thomas detto G, lui che a sua volta il Giro lo meriterebbe, eccome se lo meriterebbe. Thomas che correva il suo primo Tour de France mentre Roglič ancora saltava con gli sci, Thomas che le ha viste tutte e l’ultima volta al Giro s’è rotto il bacino scivolando su una borraccia; Thomas che ha attraversato molte vite e ancor più carriere, e a 37 anni s’è costruito una giovinezza alternativa, Thomas che effonde classe a ogni pedalata, che è talmente inequivocabile nel suo iconico portato da essere identificato con una lettera sola.

Sappiamo, a due chilometri e mezzo dalla fine della cronometro decisiva del Giro, che ciascuno dei due esiti finirà col dividere il nostro cuore a metà, precipitandoci nel limbo emotivo tipico di questo sport in cui la gioia per le conquiste dei vincitori e l’immedesimazione nello sconforto dei vinti sono come yin e yang.

Restano dieci minuti e il Monte Sacro sta per pronunciarsi, e gli argomenti della sua sentenza sono l’ululato d’attesa della nazione slovena, la leggerezza esistenziale della pedalata di Roglič, il progressivo incurvarsi della sagoma regale di Thomas. L’incontrovertibilità dell’ultimo rilevamento cronometrico: quaranta secondi di vantaggio per Roglič, quattordici più di quelli sufficienti a scavalcare Thomas.

Il resto è già storia del ciclismo, pagina di letteratura vergata in tempo reale: ecco i gregari della Jumbo in estasi quasi mistica, poi – forse è già avvenuta? – la fugace apparizione di Roglič, dapprima alle nostre spalle adesso ripulito o trasfigurato sul podio, il salto telemark, l’urlo liberatorio, i Gremo Rogla! echeggianti su e giù dalla montagna, un tappo di sughero disperso tra i fotografi. Roglič primo, Thomas secondo.

Un cerchio che si chiude, l’altro che resta sganciato, noi col cuore diviso a chiederci se sia il finale giusto, se sia la soluzione narrativa migliore, come se i monti conducessero ragionamenti sulle trame e ammettessero obiezioni, come se nel ciclismo contassero opinioni diverse da quelle delle gambe.

Roglič vince con merito, festeggia la piena riuscita del suo pellegrinaggio; Thomas perde, confessa di essere devastato. Ma la grazia non l’abbandona nemmeno per un secondo. Non quando si congratula con l’avversario, non quando ripassa a piedi, senza più maglia rosa addosso, sotto la linea del traguardo, tra due torrenti di sloveni che riconoscono la caratura dal battuto, il prestigio aggiunto da Thomas al successo di Roglič; applaudono convinti un campione con le spalle più grandi della sconfitta, che al contrario della classe è passeggera.

La foto più out of context che ho scattato

Via dei Fori Imperiali, 28 maggio, tardo pomeriggio. La banda della Polizia di Stato ha cominciato a suonare, il Presidente della Repubblica sta arrivando, Laurens De Plus ha una San Miguel da ammazzare ed è tutto a suo modo perfetto.

Due dichiarazioni di Geraint Thomas che parlano della sua grandezza

  • Cosa dirò stasera ai miei compagni? Dirò loro: Ragazzi, andiamoci a prendere un dessert.
    (a Tortona, al termine della tappa durante la quale era caduto Geoghegan Hart, dopo che gli era stato chiesto qual è la cosa migliore che un leader possa fare in un momento difficile per la squadra)
     
  • Ero lì e mi sono accorto che Mark aveva solo Luis León Sánchez accanto a sé. Allora ho pensato: Diamo una mano a un fratello!
    (a Roma, dopo aver aiutato Cavendish a preparare e poi vincere l'ultima volata della sua carriera al Giro, diventando a 38 anni il vincitore di tappa più vecchio della storia della Corsa Rosa)
     

Una cosa che Roglič aveva scritto nel 2016, dopo la sua prima vittoria in una crono al Giro d’Italia (e una foto che aveva condiviso):

Non mi importa più di tanto essere arrivato primo, però ho avuto la conferma che lottare fino alla fine è sempre una decisione giusta. Grazie per i complimenti, e un’ultima cosa: questa foto è stata scattata qualche anno fa, quando mi sono cimentato in una delle mie prime salite in bicicletta, per gioco. Il mio percorso è iniziato così: su una mountain bike presa in prestito. È bellissimo vedere quali cose affascinanti la vita può riservarti se sei abbastanza coraggioso da metterti in cammino.

Una domanda che ho fatto a Roglič domenica sera, dopo avergli ricordato quel suo post del 2016 (e la risposta ricevuta da lui, emozionato)

- Quali cose affascinanti pensi che la vita e il ciclismo possano ancora riservarti dopo questo Giro, Primoz?

- Non lo so che cosa mi aspetta. Forse una nuova corsa, o magari qualcosa di completamente diverso nella vita. C’è sempre una nuova sfida per cui lottare. It’s life, huh?

 

 

La foto in copertina è dei Tornanti.cc. Tutte le altre foto contenute nel pezzo sono state scattate con uno smarthpone, quasi sempre il mio. Il resoconto iniziale è stato possibile grazie alla collaborazione con Shimano Italia, che per tutto il Giro ha dato l'opportunità alla redazione di Bidon e GIRONIMO di seguire per la prima volta la Corsa Rosa dall'interno.

 

 

 

 

 

 

 

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