[LetteraTour 2024, Tappa 6] Il giorno della civetta

Il resoconto della sesta tappa del Tour de France 2024, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere invece iscrivendosi qui.

 

Verso la fine di settembre del 1787, un bagaglio diverso da tutti quelli caricati in precedenza fu stipato a bordo del primo bastimento in partenza dal porto di Havre de Grace, Maryland, e diretto in Francia. All’interno c’erano scheletro, pelle e corna di un alce alto più di sette piedi, uno degli esemplari più imponenti cacciati l’inverno precedente nel Vermont. La spedizione era stata richiesta niente meno che da Thomas Jefferson, diplomatico di stanza in Francia e futuro presidente degli Stati Uniti d’America, che esibendo i resti del grande animale era certo di impressionare il più rispettato naturalista dell’epoca e di fargli cambiare idea su una teoria molto dibattuta in quegli anni.

Nella sua “Storia Naturale”, una sterminata opera di cui ben quindici volumi erano dedicati ai soli quadrupedi, George-Louis Leclerc, signore di Digione e di Montbard, meglio noto come conte di Buffon, aveva avanzato l’ipotesi che il clima più freddo e umido del continente nordamericano influenzasse negativamente la fauna del Nuovo Mondo, da lui etichettata come meno vigorosa e più piccola in taglia rispetto all’europea. Jefferson, intuendo le ramificazioni politiche, economiche e sociali di siffatta tesi, tutte negative per i neonati Stati Uniti, aveva riferito di persona a Buffon che si sbagliava, e che «una renna europea riuscirebbe tranquillamente a camminare sotto il ventre di un nostro alce». Di qui la richiesta inoltrata urgentemente in patria.

Sembra che, una volta ricevuti ed esaminati i resti dell’alce del Vermont, Buffon avesse riconosciuto l’errore e promesso a Jefferson di sistemare le cose in un futuro volume della Storia Naturale, il quale tuttavia, complice la morte del conte pochi mesi dopo, non avrebbe mai visto le stampe. 

Non sapremo mai se il conte di Buffon si fosse davvero convinto della fallacia della sua teoria, così come non sapremo mai in quale categoria avrebbe catalogato gli esemplari arrivati di gran carriera questo pomeriggio nella sua Digione, al termine della sesta tappa del Tour de France 2024. Sarebbero state necessarie non solo la sua passione per il regno animale («Se non esistessero gli animali l'uomo sarebbe ancora più incomprensibile a se stesso», scrisse tra le altre cose), ma anche le sue conoscenze di matematico e astrofisico per rendere ragione della natura di quelle strane bestie galoppanti. 

E davvero i velocisti presentano tratti di una specie differente, a vederli bene, aliena alla nostra da più di un punto di vista: non si tratta esclusivamente del loro sprezzo del pericolo, che si ritrova in altre categorie di esseri umani, ma di certe funzioni biologiche che negli sprinter sembrano aver seguito una via evolutiva differente. Per questa ragione tante volte ci risulta complesso, se non impossibile, comprendere le scelte dei velocisti, il processo mentale e corporale che li porta a prendere determinate decisioni in alcune delle situazioni di maggiore stress fisico e psicologico che un organismo umano possa sperimentare. È una missione persa in partenza, la nostra. 

Riguardo la limitatezza della nostra comprensione delle altre specie, nell’illuminante “Un mondo immenso” Ed Yong ha scritto: «Non avvertiamo i campi elettrici come gli squali e gli ornitorinchi. Non sappiamo nulla dei campi magnetici rilevati da pettirossi e tartarughe marine. Non riusciamo a identificare la scia invisibile di un pesce come fanno le foche. Non sentiamo le correnti d'aria create da una mosca come i ragni.»

Possiamo aggiungere: non riusciamo a trasferire informazioni dal sistema nervoso centrale a quello periferico con la rapidità e l'efficacia dei velocisti. In altre parole: non riusciamo a “pensare con il corpo” come fanno loro, che in fatto di comunione tra quel che vede l’occhio e quel che percepisce il gomito, tra quel che immagina la mente e quel che esegue la gamba sono assimilabili a certi eccezionali abitanti del mare. Alle stelle marine, per esempio, che vedono con la punta delle braccia; o ai ricci di mare, che lo fanno con tutto il corpo; per non dire dei polpi e dei loro tentacoli zeppi di recettori sensoriali. 

Nel caso di Dylan Groenewegen, il vincitore della tappa di Digione, la sporgenza nasale dei suoi nuovi occhiali non può che suggerire un paragone coi pesci unicorno, una specie dotata di un caratteristico stiletto tra fronte e bocca che viene generalmente servita alla griglia (talvolta accompagnata da mostarda).

Facilitato dalla sua protuberanza – ma più verosimilmente dal suo fiuto – il campione nazionale dei Paesi Bassi ha valutato oggi che, tra le diverse a disposizione, fosse quella di Arnaud De Lie la ruota migliore da seguire. Si è acquattato dunque alle spalle del toro belga e, come Cavendish ventiquattr’ore prima con Ackermann, ha atteso che l’avversario lanciasse la sua volata per sfruttarne la scia e scavalcarlo a sinistra. Succedeva a centocinquanta metri dalla linea d’arrivo. 

Dall’altro lato della carreggiata, intanto, un Philipsen ingrigito rispetto al 2023 (non solo per questioni di divisa) vanificava il grande lavoro di Van der Poel, che tutto solo era stato in grado di rimontare il coriaceo treno della Uno-X e depositare il suo velocista nella posizione desiderata. Non solo Philipsen si faceva battere al fotofinish, ma si guadagnava il declassamento per aver stretto Van Aert contro le transenne. Secondo nell’ordine d’arrivo ufficiale risultava pertanto Girmay, solida maglia verde; terzo, Gaviria.

Groenewegen firma così la prima vittoria stagionale nel World Tour della Jayco-Alula, che non sarà un evento storico come il record battuto ieri ma per la squadra australiana è un fatto grosso. Qualcuno del team dev’essere passato prima della volata ad accarezzare il bassorilievo a forma di civetta scolpito in uno dei pilastri della facciata laterale della cattedrale di Digione, che porta notoriamente fortuna ed è diventato il simbolo della capitale della Borgogna. 

Si saranno dimenticati di farlo quelli dell’Astana, invece, ancora inebriati dal trionfo di ieri, con Cavendish incapacitato a giocarsi la volata (19° al traguardo) anche a causa delle energie spese nell’inseguimento a cui l’ha costretto a metà tappa una foratura occorsa proprio mentre, in testa al gruppo, la Visma sfruttava il vento laterale per accelerare e spezzare il peloton in due tronconi.

A proposito di quel ventaglio, durato una decina di chilometri prima della ricomposizione: Tadej Pogačar si è ritrovato tutto solo nella prima parte del gruppo, e ha fatto un certo effetto la sequenza in cui la maglia gialla si guardava attorno cercando invano qualche maglia amica. Tutti i compagni della UAE, mediamente molto più tagliati per la salita che per la pianura, si sono fatti sorprendere dall’azione della Visma, rivelando una debolezza che la squadra di Vingegaard dovrebbe provare sfruttare non appena ce ne sarà l’occasione. 

Considerando la caduta sfiorata ieri, allorché Pogačar ha evitato uno spartitraffico per questione di millimetri, per lo sloveno fanno due rischi non da poco corsi in due giorni – in due delle tappe sulla carta più tranquille di tutto il Tour, a conferma del fatto che i giochi non si possano certo dir chiusi.

Domani, tappa numero 7, le squadre non conteranno. È in programma una cronometro individuale di 25 chilometri in cui il favorito si direbbe essere Remco Evenepoel. Capiremo cosa hanno da dire i big di questa Grande Boucle contro il tempo, tempo che – parola del conte di Buffon – è «il lavoratore più indefesso della natura».

 

Testo: Leonardo Piccione. Foto in copertina: Tornanti.cc 

A questo link potete ascoltare "Extra extra" un mini podcast a cura di Filippo Cauz, anch'esso parte della newsletter.

 

 

 

 

 

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