Mai burlarsi di un drago vivo - Prefazione

"Mai burlarsi di un drago vivo - Storie e visioni dal Tour de France 2021" è la raccolta dei brani scritti da Leonardo Piccione nel corso della Grande Boucle 2021. Il libro è disponibile sia in versione digitale che in versione cartacea: maggiori informazioni a questo link.

 

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Nei giorni immediatamente successivi alla conclusione del Tour de France 2021, mi sono imbattuto in un riepilogo degli ascolti televisivi delle varie tappe, le cui conclusioni erano abbastanza impietose. Ad eccezione di Francia e Italia (non due paesi a caso), in tutto il resto d’Europa la corsa francese ha visto un’emorragia di spettatori più grave del previsto.

Rispetto agli ultimi cinque anni, sono stati ben il 15% in meno in Spagna, Paesi Bassi e Germania e il 7% in meno in Gran Bretagna; solo in Belgio sono rimasti stabili, trainati da quello che nelle Fiandre è stato definito l’effetto van Aert (di lui se ne parla quasi in ogni pagina di questo libro). 

Gli ascolti televisivi contano fino a un certo punto, ma resta il fatto che la Grande Boucle (che boucle non è più da un pezzo) è la vetrina del ciclismo nel mondo: la corsa più seguita, l’unica nota fuori dai paesi storici del ciclismo, quello che in Francia – con pomposo slancio autocelebrativo – sostengono essere il terzo evento sportivo più seguito a livello globale. 

Dopo una stagione complicata come il 2020, un ciclismo che continua a perdere interesse dovrebbe essere una seria fonte di preoccupazione. E invece no. 

Gli ascolti televisivi avranno la loro importanza, ma la corsa ne ha infinitamente di più. E questo Tour de France ci ha detto qualcosa di difficilmente quantificabile con le percentuali di gradimento: una storia nuova. Dopo troppe edizioni stritolate dal tatticismo esasperato e da una spaventosa carenza di dinamismo, la Grande Boucle del 2021 ha rappresentato per il ciclismo uno straordinario slancio di vitalità. Con buona pace per chi ha preferito guardare altro (o non guardare nulla).

Quello del 2021 è stato il Tour della superiorità “bestiale” di Tadej Pogačar: dominante, straripante, esaltante. A poco più di 22 anni e mezzo, lo sloveno è già padrone della corsa e dei suoi destini: come il drago citato nel titolo di questa raccolta, riesce in pochi istanti ad accenderla sputando (pedalando) fiamme o, a seconda delle esigenze, addormentarla tra le sue spire senza che nessun avversario sia realmente in grado di perturbarlo. 

Basta un dato semplice per comprendere quanto lo sloveno sia riuscito a rendere goduriosa la sua corsa: il secondo classificato è arrivato a cinque minuti e venti secondi, dal quarto in giù il distacco è in doppia cifra. Era dallo strepitoso Vincenzo Nibali del 2014 che non si vedevano divari simili sulle strade di Francia. 

E sono distacchi che definiscono la dimensione dell’impresa, ovvero di ciò che diventa memorabile nel ciclismo. All’ottava tappa, quella con arrivo a Le Grand-Bornand, Pogačar ha rifilato più di tre minuti ai diretti avversari in classifica. Una prestazione che riporta la memoria indietro di oltre un ventennio, a un ciclismo fatto di pochi calcoli e tanti scontri diretti.

Non bastasse, c’è un altro numero che rappresenta la straordinarietà di questa Grande Boucle. Il trentaquattro. ‘A capa, la testa, secondo la smorfia napoletana. Che al Tour va intesa come ‘a capa su cui Mark Cavendish batte le mani dopo ogni sua vittoria. Il velocista britannico era uscito dalla stagione 2020 in fuga e in lacrime, con la sensazione che la sua carriera fosse conclusa del tutto. Quest’estate è rientrato invece dal portone principale, facendo ciò che ha sempre fatto: andando più veloce di chiunque altro negli ultimi cento metri di tappa.

Nel raggiungere l’Irraggiungibile della storia del ciclismo, Cav ha commosso ed esaltato tutti, compresi (e non è poco) i suoi detrattori: chi lo aveva bollato per finito, chi non ne aveva mai sopportato l’esuberanza emotiva.

È stato in qualche modo anche il Tour di Julian Alaphilippe, che con l’ormai classico numero à-la-philippe si è messo la maglia gialla sopra quella iridata, prerogativa di pochi eccelsi in questo secolo abbondante di corsa. E di Mathieu van der Poel, che al suo primo Tour si è preso tutto quello che poteva prendere e ha colmato il cielo di dediche per il nonno di tutti i francesi. 

È stato il Tour di Wout van Aert, la cui presenza tenace ci invita ogni giorno ad arricchire il nostro vocabolario dello stupore. E, infine, il Tour di Matej Mohorič, re di fughe di una Grande Boucle ricca di fughe (evviva), che ha assaltato senza posa le strade di Francia e che proprio al termine della sua seconda fuga vincente, a Libourne, ci ha regalato la più significativa delle dediche: la mano prima alla bocca e poi al cuore, a zittire chi insiste nel mal sopportare i corridori del Tour, che si sacrificano ogni giorno e girano il mondo per fare ciò che più amano.

Un Tour di nomi noti e di volti nuovi, che potrebbe segnare l’inizio di un’era (ma questo lo scopriremo tra qualche anno) e che sicuramente esprime alla perfezione il momento storico di un ciclismo che cambia, e va di fretta, nel bene e nel male. Se la fretta di un gruppo troppo lanciato ha soffocato le prime giornate di corsa in un rivolo di cadute, la fretta di queste nuove generazioni (curiosamente interpreti di un ciclismo molto vecchia scuola) ci ha sommerso di storie ed entusiasmi che, almeno in terra francese, temevamo sopiti. 

Siamo fortunati a vivere in questi anni, a poter assistere all’irruzione di questi nuovi campioni. Abbiamo la fortuna di poterli vedere, di poterli raccontare e di poter leggere o ascoltare chi ce li racconta. È una fortuna non da poco, teniamocela stretta.

Alla vigilia del Tour de France io e Leonardo ci siamo confrontati come d’abitudine su come dividere il lavoro all'interno della piccola redazione di Bidon, e come conciliare tutto ciò con i nostri ritmi di vita.

Lo schema prevedeva che io e Michele Polletta ci saremmo dedicati alla parte audio-video (le cronache in diretta su Twitch, dal titolo “Sofa Bidon”), mentre Leonardo avrebbe scritto gli articoli relativi alla corsa, senza la necessità di farlo tutti i giorni, solo quando ci sarebbe stato qualcosa da scrivere. 

Come potete facilmente intuire dal fatto che le prossime pagine contengono racconti riguardanti tutte e 21 le tappe, non c’è stato giorno in cui la Grande Boucle non abbia proposto qualcosa di cui scrivere.

Anzi, sullo slancio degli stimoli francesi, questa raccolta ha trovato anche due ideali “prolungamenti” delle storie in essa contenuta nelle corse in linea maschili delle Olimpiadi di Tokyo, raccontate in coda, con protagonisti in comune ma destini differenti. 

Non bastasse il solo piacere della lettura, immergersi in tutte queste storie sarà l’occasione per rafforzare la memoria di un’edizione del Tour da ricordare.

 

Filippo Cauz

 

 

 

 

 

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