#CCLUNV - La prefazione

Per la prefazione di Chissà che l'utopia non vinca (che è disponibile qui, contiene questo e ha questa copertina) abbiamo pensato di chiedere un regalo a Gino Cervi, che è per noi da tempo un insostituibile maestro di spade.

Gino (solo omonimo dell’attore che ha reso famosi Peppone e il commissario Maigret, anche se non è poco) è autore, progettista e coordinatore editoriale. È stato editor di Ediciclo e co-fondatore dell’unica rivista “letteraria” di ciclismo in Itala, Cycle!. Ha scritto e curato diverse pubblicazioni di sport, soprattutto di ciclismo. Tra le più recenti, il Centogiro (Ediciclo, 2017) e la collana La bicicletta - Passione, pratica e stili di vita.

Di seguito il testo di "In principio era la sete", lo scritto che apre il nostro nuovo libro.

 

In principio era il caos, dice Esiodo nella Teogonia. Se è vero che la bicicletta sta allo sport come la mitologia sta alla letteratura classica, mi posso allora prendere la sfacciata libertà di parafrasare così:  “Nel ciclismo, in principio era la sete”. 

Gianni Brera, l’Esiodo della mitologia sportiva, scrive che le cose, nella Milano di fine Ottocento, andarono così. A inventare le corse ciclistiche fu “tale distinto signor Granida”, un intraprendente venditore ambulante di bibite che teneva bottega in forma-carrettino, forse anch’esso a due ruote, lungo il perimetro dell’allora piazza d’Armi, poi diventata Fiera Campionaria, e oggi esclusivo quartiere verticale per milionari, di preferenza broker e calciatori.

Dove adesso svetta il biscottone di Libeskind, un tempo venivano infatti a sfidarsi i primi velocipedastri in tumultuose volate, in sella a ferree macchine corsiere. Intorno al baracchino del Granida – che si chiamava così perché vendeva, oltre all’acqua e anice, il cocco fresco e i coni gelati, anche la grattachecca al tamarindo, in milanes: granida – ,  si affollava sempre più gente, accalorandosi a fare il tifo per il Meneghetti o per il Parini; per il Campari, non ancora detto El Négher, come quando poi fece successi e fortuna al volante di un’Alfa Romeo; o per i quattro fratelli Azzini, figli del droghiere di Molino delle Armi; o proprio per il Pavesi l’Avocatt, che è proprio quello che racconta questa storia al Giôannbrerafucarlo in "Addio bicicletta"

Al Granida un bel giorno venne l’idea di metter su una gara a premi: dieci giri di piazza, cinque lire al primo arrivato, tre al secondo. Tramestio, ovazione, entusiasmo dei velocipedastri. “Un momento!”, disse il Granida. “Prima pagare, poi pedalare”, quasi come uno Scòzzari cent’anni prima. Secondo regolamento, stilato sui due piedi da quel “tipaccio zingaro, con basette alla brigantesca, due occhi neri da siciliano, una stinta maglietta rossa sul torso peloso, un grembiule già stato bianco sul ventre”, i premi sarebbero spettati solo a quelli che avrebbero versato, prima, mezza lira d’iscrizione. Gli altri “liberi di impegnarsi in fare se volevano, e tante grazie per lo spettacolo, ma premi, si capisce, minga!”. L’idea del Granida, nata sotto l’insegna della sete, ebbe successo e la piazza d’Armi divenne teatro delle prime corse ciclistiche a premi a Milano, e quindi in Italia.

E sotto l’insegna della sete, quindi nel rispetto della più antica e illustre tradizione, da Brera in poi, la mitopoietica del ciclismo continua oggi con Bidon – Ciclismo allo stato liquido. "Bidon", inutile stare a dirlo, vuol dire in francese la borraccia, ma da qualche anno a questa parte è il “marchio” che unisce il meglio della narrazione contemporanea sul ciclismo.

Come quelli di Alexandre Dumas – Athos, Aramis, Porthos, più l’extra d’Artagnan - e i vincitori in maglia Atala del Giro 1912 – Ganna, Galetti, Pavesi e il conte di Sacile, Nane Micheletto – , i moschettieri di Bidon sono quattro, Francesco Bozzi, Filippo Cauz, Leonardo Piccione e Riccardo Spinelli, anche se la formazione ha un assetto variabile, e come in un ventaglio in una classica del Nord si dispone ora a cinque, ora a sei, ora a sette componenti. 

Ma io quei quattro conosco, e di loro posso qui di seguito dire e testimoniare che sono tutti e quattro l’uno molto diverso dall’altro, ma quando vanno in fuga si danno cambi regolari come neanche in una 100 km a squadre alle Olimpiadi (quando ancora si correva). 

Posso testimoniare che hanno animi assai differenti, e che sono arrivati sin qui seguendo le strade più disparate. Che vi è chi conosce la scrittura e chi i vulcani, chi beve pinte di birra e chi scrive come dipingeva Edward Hopper o come fotografava Luigi Ghirri, lasciando un segno discreto ma indelebile nei ritratti, nei paesaggi, nelle prospettive, negli oggetti; chi si dedica a musiche di cui io non sospettavo neppure l’esistenza e chi all’astrofisica (e, se mi posso concedere una personalissima e sentimentale angolatura, ha avuto persino la pazienza di far entrare un cicinìn di matematica nella testa di mio figlio – o almeno quel poco sufficiente per passare un esame a settembre). 

E posso testimoniare che dentro a questo libro, che s’intitola "Chissà che l’utopia non vinca" – il perché ve lo spiega Steven Kruijswijk – troverete Ernest Hemingway e Bartolomeo Aymo; le pietre del muro del Paterberg tutte in fila, come le tappe del Giro d’Italia 2018 nel diario di Eugert Zhupa, dorsale 218 della Corsa Rosa; la risata di Michele Scarponi che riecheggia ancora nelle strade di Filottrano; le memorie di ciclismo e di vita di Graeme Obree e di Claudio Gregori; e poi Nibali, Chaves, Quintana e Sagan – però Antonio, Brayan, Dayer e Juraj.

E che capirete anche perché il vero inventore delle corse a tappe non è mica Henri Desgrange ma Giotto da Bondone; e che a Cholet scoprirete la storia di Roland Garros, aviatore; e che leggerete della happiness di Degenkolb a Roubaix e del bonheur di Sagan a Valence, e, se vorrete, nelle pagine del Journal du Tour 2018, che è ormai un classico del repertorio bidonesco, di tutti gli altri splendori e miserie della Gran Corsa Francese. 

E, infine, posso dichiarare che i quattro moschettieri di cui sopra, e tutti i loro compagni d’avventura di questo libro, quando indossano la maglietta di Bidon dimostrano, per la felicità di chi li legge e li segue, che si può ancora raccontare il ciclismo di oggi, vecchio di più di cent’anni e di migliaia e migliaia di storie, come se fosse un mondo giovane e ancora da scoprire, da indicare col dito, da chiamare come mai si era chiamato prima; insomma, come una magica Macondo a pedali.

 

Gino Cervi

 

 

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