[Mondiali 2021] Non era previsto

A 182 chilometri dal traguardo del mondiale di Leuven, il gruppo di testa è tirato da Jambaljamts Sainbayar, unico rappresentante della nazionale mongola. Davanti a tutti ci sono otto corridori per altrettante nazionali di tre diversi continenti.

Una situazione ordinaria per gare come questa, controllabile. Se non fosse che cinque minuti dopo il passaggio degli attaccanti sullo Smeysberg scatta Anthony Turgis e sulla sua ruota si porta Remco Evenepoel.

A 92 chilometri dal traguardo, esaurite fuga e controfuga, in testa al gruppo c'è di nuovo fermento. I francesi sembrano tarantolati, portano via un’altra fuga. In mezzo a loro spunta ancora il profilo compatto di Evenepoel. La folla di tifosi belgi accorsa sui marciapiedi del Brabante mantiene su Remco certe sue riserve, condivise peraltro col sovrano locale Eddy Merckx: ma lui passa in testa, imperterrito, davanti ai loro nasi.

A 56 chilometri dal traguardo, Christophe Laporte pilota il primo attacco del suo capitano, Julian Alaphilippe. Evenepoel è sempre lì davanti, e ci rimane anche ai meno 38, dopo che i bollenti spiriti di Alaphilippe hanno scremato il gruppo dei migliori. Wout van Aert, il capitano unico del Belgio, è pronto all’assalto, e il giovane ribelle si sta sacrificando per lui.

Il pubblico fiammingo comincia a cambiare idea. Quando si arriva per l'ultima volta sul circuito di Leuven, la relazione tra il corridore e il suo popolo si è evoluta: il pubblico canta "Merci, Remco". Merci, in francese, come se l'effetto-tarantola degli uomini in divisa blu avesse contaminato gli spettatori. Come se il ringraziamento fosse già esteso al vincitore, la cui nazionalità e il cui nome appaiono chiari a tutti chilometro dopo chilometro.

Julian Alaphilippe è un corridore che si gira spesso a guardare chi gli sta attorno. Non i rivali, quelli gli interessano fino a un certo punto. Guarda chi sta al di là delle transenne. Sembra trarre energia da ogni sospiro del pubblico. Alimentato da questa specie di fotosintesi, Alaphilippe respira la tensione che esce dai polmoni dei tifosi belgi, preoccupati dall’assenza di Van Aert alla sua ruota, e la riconverte in ossigeno.

A fine gara in effetti è lui a ringraziare gli appassionati di Leuven: per averlo motivato, con i loro inviti a rallentare, a dare tutto quello che aveva e confermarsi campione del mondo.

Davanti al microfono della tv francese, Julian Alaphilippe sfoggia il suo tradizionale repertorio di occhiate stereoscopiche e subitanei movimenti di sopracciglia. Si guarda intorno, si passa le mani tra i capelli, si accarezza la cornice di barba da moschettiere, più folta di altre volte. Sembra stia cercando qualcuno.

Dà l’impressione, esattamente come quando è in sella, di poter andar via da un momento all’altro, di star fermo a fatica e solo per il tempo che lo separa dal nuovo obiettivo, dal prossimo scatto, dal successivo oggetto delle sue attenzioni. Racconta – l’eloquio rallentato da un accenno di fiacchezza – che sapeva dal mattino di avere delle buone gambe, ma che rimanere tutto solo a un giro e mezzo dalla fine della gara mondiale, no, non era previsto.

È al termine di questa frase che i suoi occhi agili incrociano, sul lato destro, la figura lungamente cercata. Alaphilippe si alza dallo sgabello e abbraccia Thomas Voeckler, commissario tecnico della Francia dal 2019, due mondiali vinti su tre. Si scambiano vicendevoli pacche sulle spalle, per alcuni secondi sembra facciano a gara a chi sfoggi il sorriso più largo.

Dopodiché il campione del mondo esclama: «On n'a pas respecté ton plan!», non abbiamo rispettato il tuo piano. Voeckler si prende una frazione di secondo per ricevere le bizzarre scuse ed elaborare la sua replica, un’unica parola urlata, il sostantivo che più di tutti sintetizza la gara di oggi e, più in generale, l’idea di ciclismo che Alaphilippe interpreta dacché pedala: «L’instinct!».

L’istinto lo porta ad eccellere come pochi nelle gare senza radioline. L’istinto l’ha portato ad attaccare la prima volta a 58 dall’arrivo, quando il suo ct avrebbe preferito si preservasse ancora un po’, lasciando che l’incontenibile Francia di oggi continuasse a cuocere le ambizioni dei rivali a suon di accelerazioni apparentemente sconsiderate.

Difficile enumerare tutti gli allunghi portati in 268 chilometri dai francesi (soprattutto dall’indiavolato Cosnefroy, il primo a infiammare la corsa), appena più semplice concentrarsi su quelli di Alaphilippe. Quattro, via via più convinti e selettivi. Buona parte dei corridori ha una sola cartuccia da sparare, possibilmente nel momento giusto, invece Alaphilippe possiede un arsenale intero e un'infinità di momenti giusti.

L’ultimo, sul muro di Sint-Antoniusberg, è stato quello con cui si è scrollato di dosso le ultime resistenze degli avversari superstiti, un plotone ipernutrito di nomi e ambizioni, da Van Aert a Van der Poel, da Colbrelli a Pidcock.

Non appena ha preso dieci, poi venti, poi trenta secondi di vantaggio, non ci sono stati dubbi sull’esito della sua azione. Di un’altra azione "à la Philippe", uno di quei numeri simili e diversi a un tempo in cui rimane solo davanti a tutti per un certo numero di minuti, tipicamente scuotendo la testa a destra e sinistra dallo sforzo, come a voler dire “No, non ce la faccio”, finché invece non si accorge di aver annientato la concorrenza e a poco dal traguardo (oggi a un chilometro e mezzo) il movimento diventa su-giù, a significare “Sì, ce l’ho fatta un'altra volta”.

«Non la smetteva più di attaccare», ha detto nel post gara lo sconsolato Van Aert, sconfitto di giornata insieme all’eroe locale Stuyven, relegato dal fotofinish ai piedi del podio. Per loro, il mondiale di Leuven si è concluso con un’enorme delusione. Per il mezzo milione di spettatori che hanno riempito le strade, meno.

Il Belgio ha perso, ma c’è più di una ragione per prolungare la festa. C'è da celebrare l’avvenuta riconciliazione col giovane fenomeno nazionale.

C’è, soprattutto, da onorare un campione del mondo che non si aspettavano loro e nemmeno Alaphilippe stesso, il quale solo ieri si diceva “alleggerito” dall’idea di disfarsi della maglia iridata e del suo peso. Invece se la terrà almeno un altro anno. Non era previsto, e forse per questo è ancora più bello.

 

(Testo a cura di Filippo Cauz e Leonardo Piccione. Foto in copertina: Tornanti.cc)

 

 

 

 

 

 

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