A un gradino segue l'altro
Il cielo sopra Hoogerheide è azzurro, terso, inaspettato, persino sgradito. Chiunque avrebbe preferito un consono grigio, un po' di pioggia a rimestare il terreno di un percorso fin troppo veloce. Chiunque tranne chi sta sotto a quel cielo, e, tra una gara e l'altra, alza il naso per sincerarsi che sia ancora azzurro e ancora lassù, tagliato da scie di aerei che promettono destinazioni distanti, viaggi, sogni.
È grazie alla vicina pista aeroportuale, un piccolissimo impianto dedicato ai Fokker, che Adrie van der Poel ha cominciato a fare ciclocross. L'aeroporto era circondato da campi e boschi, e durante gli inverni fangosi erano i posti più divertenti dove pedalare per un ragazzino di Hoogerheide. Sono trascorsi parecchi anni, la famiglia Van der Poel si è allargata e trasferita poco più in là, oltre il confine, ma le trasognanti pedalate sono rimaste le stesse. E da Adrie sono passate alla generazione successiva, ai figli, a Mathieu.
Vincere a Hoogerheide non è mai stato qualcosa di inusuale per Mathieu van der Poel, che la "corsa di papà" l'ha vinta ogni volta che vi ha preso parte da che è professionista. Cinque su cinque. Cinque come i mondiali vinti, con oggi, ma vincere la gara iridata non è sempre stata così semplice per il giovane VDP. Di mezzo, in un modo o nell'altro, si è sempre infilato quel fastidio chiamato Wout van Aert.
Già, van Aert. È un decennio che si fa fatica a nominare un Van der Poel senza un Van Aert, e viceversa. Un costante inseguimento e rilancio, come una lunga scala in cui a un gradino segue l'altro, anche quando l'inseguimento non c'è e i due preferiscono fermarsi sullo stesso scalino. Il mondiale odierno è stato a lungo un mezzanino, in cui i duellanti hanno atteso che accadesse qualcosa, che l'altro mancasse almeno il passo che, già lo sapevano, non avrebbe mancato.
Ci sono 36 gradini sulla scalinata di Hoogerheide. La chiamano con lo zeppeliniano soprannome di "Stairway to Heaven", ma di Paradiso ha ben poco, anzi l'ascesa, tornata dopo tornata, somiglia a un girone infernale, con diavoletti invisibili che punzecchiano ogni muscolo di dolore. E il dolore nel ciclismo fa rima con errore. Van Aert sapeva che se porti in volata uno come Van der Poel perdi dieci volte su dieci, ma era convinto che l'altro lo avrebbe attaccato prima. Lo dice nel modo più umano in cui si possa dirlo: "ero oltre il mio limite, e sono andato in confusione". Il ciclocross è questa cosa qui, un turbinio di caos, una confusione che si tramanda elettricamente da una persona all'altra nella sconfinata folla che abbraccia la corsa, e travalica le transenne, sale dalle gambe e raggiunge la testa dei corridori. Vince l'ultimo che riesce a non perdere la trebisonda. Che, di questi tempi, ancor più da queste parti, sotto questo cielo, di cognome fa quasi sempre Van der Poel.
Testo: filippo cauz
Foto: Tornanti.cc