[LetteraTour 2024, Tappa 21] Senza precedenti

Il resoconto dell'ultima tappa del Tour de France 2024, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti si possono leggere invece iscrivendosi qui, oppure acquistando la raccolta che sarà pubblicata in formato cartaceo e digitale tra pochi giorni.

 

 

Tra tutte le ragioni per cui la nostra è un’epoca "senza precedenti", una delle rare a generare euforia e non apprensione ha le sembianze d’uno scavezzacollo bardato di giallo e lanciato a tutta velocità lungo la discesa dal Col d'Èze una domenica di luglio, col sole che va e viene e la Promenade des Anglais addobbata a festa. 

Non succedeva da ventisei anni – cioè da prima che suddetto scavezzacollo venisse al mondo – che un ciclista completasse l’accoppiata Giro-Tour nella stessa stagione, e non era mai successo nella storia di questo sport che qualcuno riuscisse a farlo totalizzando più di undici vittorie di tappa tra un’impresa e l’altra.

Battendo i soliti Vingegaard (di 1 minuto e 3) ed Evenepoel (di 1 minuto e 14), Tadej Pogačar ha vinto stasera la sesta tappa di questo suo Tour dei miracoli, la terza consecutiva e la dodicesima complessiva tra i due primi grandi giri della stagione, assommando alla sua già interminabile lista di obiettivi raggiunti uno che nemmeno Eddy Merckx era stato in grado di ottenere. 

Non è la prima volta che la leggenda belga viene chiamata in causa questo mese a causa di un suo record battuto dopo decenni: ma è la prima volta dal ritiro dalle corse del Cannibale, quasi mezzo secolo fa, che non sembra inappropriato che al suo nome ne venga accostato un altro.

E la ragione primaria è questa Grande Boucle appena finita e già elevata a esemplare da museo, andrebbe trasferito il Louvre a Nizza apposta per esporla dove si è conclusa, a beneficio dei posteri, di coloro ai quali la gioventù che certamente invidieremo avrà impedito di apprezzare in tempo reale la fabbricazione di questo pezzo di storia dello sport.

Un Tour de France la cui parabola narrativa si è a dire il vero consumata in fretta, toccando il vertice del pathos a metà libro (Le Lioran, vittoria di Vingegaard su Pogačar in volata) ma chiudendosi subito dopo, già al secondo weekend di racconto, sui Pirenei. Le sensazionali ambientazioni preparate per accogliere i capitoli finali della saga hanno finito così per far da sfondo a semplici spin-off della storia principale, poco più che appendici di una trama già risolta.

Questo perché, nonostante molte volte sembri vero il contrario, il Tour non lo scrivono i romanzieri ma le strade, e le strade sono compendiose, preferiscono la sostanza agli arzigogoli. La sostanza rivelata dalle strade di questa Grande Boucle è che Tadej Pogačar ha raggiunto un livello di competitività inedito a nostra memoria. Senza precedenti. Ha inanellato, numeri alla mano, alcune delle prestazioni migliori non solo della sua carriera, ma della storia del ciclismo.

Per quanto ne sappiamo, c’è riuscito non ingerendo il frutto Gom Gom ma dedicandosi nei mesi che hanno preceduto la Grande Boucle al perfezionamento scientifico delle già impressionanti qualità di base che la genetica gli ha donato. Nature and nurture

Con il supporto di alcuni tra gli specialisti migliori al mondo nel loro campo, cortesia delle infinite risorse a disposizione della squadra per cui corre, è intervenuto sul suo modo di mangiare e di allenarsi, di riposarsi e di pedalare, andando a tappare precisamente le pur limitate falle che nei due Tour precedenti l’avevano relegato alla condizione per lui inaccettabile del battuto.

Dietro questo processo molto poco romantico all’apparenza, respingente nella sua laboratoriale asetticità, risiede infatti un motore decisamente più umano: quello inesauribile dell’ambizione, del capriccio bambinesco di primeggiare sempre.

Tadej Pogačar non dà spettacolo per il gusto disinteressato di farlo. Lo fa perché è il modo più efficace che conosce per arrivare primo: dunque lo fa anzitutto per se stesso, come nella confessione liberatoria di Walter White, e quello che infiamma il pubblico che l’attende è esattamente questa forma di egoismo, questa voluttà con cui si serve della bicicletta per raggiungere i suoi scopi. 

Esibisce la propria bravura con una sfacciataggine che il più delle volte nella vita ci è preclusa: spesso la vita ci impone di camuffare i nostri talenti, di sotterrarli, ma lo sport no, lo sport serve a mettere la lucerna sul lucerniere perché faccia luce, e nessuno nel ciclismo contemporaneo illumina più di Pogačar.

Persino superfluo rimarcare il ruolo decisivo di colui che ha provocato fino all’incandescenza il lume di Pogačar. Perché se è vero che i grandi destini si realizzano nella solitudine, altrettanto vero è che l’elettricità si genera nel contrasto, e i memorabili fenomeni temporaleschi delle ultime quattro estati si devono per metà a Jonas Vingegaard, alla sua personalità antitetica a quella dell'avversario eterno, al suo modo più discreto ma non meno determinato di splendere.

La loro è già, nei fatti, una delle rivalità più durature e consistenti dell’intera storia dei grandi giri. Per quanto a volte si sforzino di dissimulare le loro discrepanze, sono diventati nei fatti i paradigmi di due stili, di due modi di intendere le cose del ciclismo e del mondo a cui noi aderiamo oppure ci opponiamo, o un po’ aderiamo e un po’ ci opponiamo, dividendoci persino più di quanto siano effettivamente divisi loro due. 

D’altra parte abbiamo il diritto di fare delle imprese dei ciclisti quel che vogliamo, come i lettori fanno quel che vogliono delle poesie e dei tormentoni estivi, attribuendo loro significati che non necessariamente rientravano dell’intento iniziale degli autori. 

Di Pogačar vorremmo la disinvoltura, di Vingegaard la tenacia. Ciascuno peschi la qualità che loro possiedono e a che a noi manca, il gioco dello sport sta tutto qua.

La facilità con cui è possibile universalizzare i loro caratteri è uno dei maggiori segreti del successo di questo duopolio, e affinché questo continui a reggere è fondamentale che non si spezzi l’equilibrio sull’orlo del quale i due protagonisti si sono l’un l’altro spinti. 

Fino a quali limiti biologici Pogačar e Vingegaard potranno alzare l’asticella del loro confronto, non ci è dato saperlo. Insieme a Evenepoel, sono i più talentuosi esponenti di una generazione dorata germogliata in un’epoca di portentose migliorie tecnico-scientifiche: una contingenza che suggerisce che ciascuno di essi abbia ancora significativi margini di miglioramento, col solito auspicio che questo forsennato ricorrersi rimanga entro i confini talvolta opachi di quel che comunemente chiamiamo sport.

E poi, che altro ci resta di questo Tour de France?

Cominciamo con l’evoluzione di Derek Gee, il nostro birdwatcher di riferimento, che in questa sua convincente mutazione da migratore delle fughe a stanziale delle classifiche generali è riuscito a nidificare nelle posizioni che contano della corsa a tappe più importante: 9°. 

Del simile Tour da regolarista di Giulio Ciccone (11°) rischia invece di rimanere soltanto il disappunto per la prima top-10 in carriera evaporata all’ultima tappa, a favore di Buitrago. Obiettivo top-10 sfuggito anche a un habitué come Guillaume Martin (13°), penalizzato dalla scarsa fortuna che hanno avuto le fughe in questa Grande Boucle e purtuttavia capace di concludere da miglior francese in classifica generale e di lasciarci una pennellata delle sue sull'essenza della maglia gialla: «Pogačar è uno di cui percepisci l’aura anche quando risale il gruppo dopo essere andato a prendere una borraccia», ha detto il primo giorno di riposo.

Come ogni volta che prende il via a una corsa, e quest’anno in maniera più ufficiale del solito, di Richard Carapaz (15°) conserviamo la combattività; di Egan Bernal (29°), l’ottimismo. Nonostante fatichi a tornare ai suoi livelli, e nonostante il lavoro di gregariato per un deludente Rodríguez (7°) lo releghi alla penombra, è fonte di conforto sapere che da qualche parte nel peloton c’è Bernal, a trovare come che sia ragioni per sorridere. «Certo che ci piacerebbe vincere», ha scritto due giorni fa su Instagram. «Ma finché non arriva la vittoria dobbiamo goderci ogni tappa del Tour, così come della vita».

Arrivando 30° al termine del suo ultimo Tour de France, Romain Bardet ha concluso col peggior risultato in carriera nella classifica di un grande giro quello che lui invece considera il suo Tour migliore di sempre. Oltre alla prima tappa e alla prima maglia gialla, rimane la perfetta laconicità con cui ha descritto il momento in cui è stato ripreso da Pogačar sul Col de la Cuillole: «Ho avuto la fortuna di farmi raggiungere dal migliore, mi ha dato l’idea di un treno che passa e di una storia che finisce». 

Rimane anche di Bardet la promessa di impegnarsi, una volta che sarà diventato un ex, a rendere il ciclismo uno sport più sostenibile. Vorrebbe studiare un meccanismo per distribuire in modo più equo i campioni tra le diverse squadre; vorrebbe che la competizione fosse più aperta e i ciclisti meno radiocomandati. «Mi piacerebbe che, oltre che agli atleti, venisse dato spazio alle persone», ha spiegato. 

Ultimo Tour in carriera anche per Simon Geschke (94°), di cui ci teniamo l’impeccabile barba e l’altrettanto impeccabile capacità di condensare da fuggitivo quanto da uomo squadra tutti i pregi della classe operaia del Tour, la corsa che – scrive – «è stata la ragione per la quale da bambino sognavo di diventare un ciclista».

Pure Biniam Girmay (113°) guardava il Tour de France da piccolo, e pure lui parla di sogni realizzati, sogni che in queste settimane hanno assunto per l'eritreo le sembianze di tre vittorie di tappa e della maglia verde finale. 

«Non mi rendo ancora conto di quanto la mia vita sia cambiata», ha dichiarato poco prima di srotolare il manifesto della sua fame, della sua gioia di essere ciclista: «Voglio fare di più, andare oltre, sempre oltre. Mi sveglio ogni mattina dicendomi che sono il migliore. È una questione mia, solo mia. Non mi interessa chi potrebbe essere migliore di me, io voglio solo correre e vincere.»

Il Tour di Mark Cavendish (141°) ci lascia infine una delle più poderose storie di tenacia di cui siamo stati testimoni in questi anni. È arrivato ultimo nel suo ultimo Tour de France (primo dal 1989 ad aver vinto una tappa nello stesso Tour di cui poi è stato lanterne rouge), un Tour che rimarrà la corsa della sublimazione massima della sua idea fissa, la vittoria. 

Un’ossessione così diversa e insieme così sovrapponibile a quella di Pogačar, che tuttavia Manxman ha provato in qualche misura a mitigare: «A un certo punto non si tratta più di vincere, ma di creare ricordi», ha dichiarato all’Équipe. «Non auguro a nessuno i dolori che ho provato negli ultimi anni di carriera, ma questa sofferenza mi ha insegnato di più sulla vita, su quello che posso trasmettere ai miei figli.»

Figli con i quali dall’anno prossimo guarderà il Tour da casa, nel ruolo di fan. Sarà bello, ne è certo, raccontare loro com’è stato correre per un po' insieme a quest’eccezionale generazione di ciclisti. 

Suo figlio Casper è un grande tifoso di Pogačar, e Pogačar ci riporta all’inizio di tutto, cioè al senso di diventare leggende, di essere ricordati per come si è fatto quel si amava fare, destino riguardo cui Cavendish per ora non ha risposte, solo una domanda: «Tu fai il meglio che puoi, tiri fuori il massimo da te stesso, poi lo trova la storia il modo di registrare quel che hai lasciato, giusto?»

La fine del Tour de France ci lascia come ogni volta in mezzo al guado: ce n’è ancora un pezzo davanti, ma la parte migliore dell’estate è alle spalle. È una transizione delicata, uno dei luoghi più sospesi che conosciamo, sebbene, come sosteneva il poeta Jean Cocteau, non ci sia un luogo più sospeso nel vuoto, più spaesato, più insolito del Col d’Èze. 

Giù dal Col d’Èze è terminato stasera un Tour storico per una lunga serie di motivi ai quali manca di aggiungere il più importante, che non ha a che fare con le grandi storie ma con quelle con la esse minuscola, le nostre, perché un Tour de France – come una poesia, come una canzone – contribuisce alle nostre esistenze soltanto quando stabiliamo che è riuscito a farsi svolazzo liberatorio, salvifica evasione dall’assedio del mondo.

 

Testo: Leonardo Piccione. Foto: Tornanti.cc. Cliccate qui per ascoltare un contributo extra a cura di Filippo Cauz.

 

 

 

 

 

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