[Tokyo2021] Incommensurabilmente felici
Il regolamento delle gare di inseguimento a squadre maschili è semplice: quattro ciclisti per parte prendono il via dai due rettilinei opposti della pista, chi per primo raggiunge l’avversario vince. Si chiama “inseguimento” per questo.
La peculiarità del gioco sta nel suo presupposto, cioè nel fatto che le due squadre non hanno un ruolo definito, a inizio gara: non ci sono guardie e ladri, fuggitivi e inseguitori, buoni e cattivi, ma tutti sono tutto contemporaneamente. Ciascuno è evaso e segugio al tempo stesso, finché il procedere dei chilometri e della stanchezza decide di assegnare le parti, il copione prende una forma logica e finalmente l’inseguitore agguanta l’inseguito nel più primordiale degli epiloghi, una dinamica con cui gli esseri umani sono familiari dall’epoca in cui erano cacciatori-raccoglitori.
Il problema è che il più delle volte, specie ad alto livello, specie in una finale olimpica, in una gara di inseguimento a squadre questo non accade. Le gare di inseguimento a squadre raramente finiscono a inseguimento compiuto: sedici giri di pista sono pochi, le forze in gioco non così dissimili. Le due squadre potrebbero rincorrersi a lungo senza raggiungersi mai, i ciclisti trasformarsi in criceti impazziti. Per questo motivo, il regolamento delle gare di inseguimento a squadre specifica: “Vince chi raggiunge per primo l’avversario OPPURE chi copre la distanza nel minor tempo”.
Le gare di inseguimento a squadre hanno dunque a che fare col tempo, verrebbe da dire quasi più col tempo che con l’avversario, se non fosse che l’avversario c’è, lo senti, lo vedi o comunque lo percepisci, ti mette il fiato sul collo, tu lo metti a lui.
Vista alla tv, una gara di inseguimento a squadre è un rimbalzare frenetico dello sguardo tra i fotogrammi dei ciclisti – i caschi spaziali, le ruote centrifuganti, le schiene parallele alla pista – e i numeretti in sovrimpressione, i più e i meno che orientano la contesa, la luce verde che certifica chi è che sta fuggendo, dopotutto, quale squadra è in vantaggio, un vantaggio a volte così risicato da risultare impercettibile a occhio nudo.
Sedici giri di pista, trentadue inquadrature centrali, i rettilinei paralleli e una linea bianca perpendicolare ad attraversarli. E il tentativo, giro dopo giro, di affidarsi alla propria vista per anticipare di qualche frazione di secondo il responso incontrovertibile del cronometro.
In certi casi lo capisci, fissando attentamente la linea bianca, chi è davanti. Si vedeva benissimo, nel primo chilometro e mezzo della finale di questa mattina, che l’Italia era in vantaggio, che il ritmo imposto da Francesco Lamon prima di sfilarsi era alto, nettamente superiore a quello dei danesi. Si vedeva altrettanto chiaramente, nella parte centrale della gara, che erano diventati i danesi le lepri, dapprima riducendo il ritardo, presto annullandolo, dunque provando loro a fuggire.
Dopo tre chilometri di gara, cioè a uno dalla fine, la Danimarca era quasi nove decimi di secondo avanti rispetto all’Italia. Non serviva la conferma dei numeri, si intuiva perfettamente a occhio nudo. Ma l’Italia, questa Italia, ha imparato a costruirsi la sua gloria con pazienza.
Ci sono voluti 61 anni per tornare ai livelli di Roma 1960, due quadrienni per mettere insieme un quartetto imbattibile, tra difficoltà logistiche di ogni natura. Tre minuti, quarantadue secondi e trentadue millesimi sono un battito di ciglia rispetto a tutto questo tempo, ed è in un battito di ciglia (o d’ali, o di turbine, visto il suo soprannome) che Filippo Ganna ha ricucito lo strappo con la Danimarca.
Gli è bastato un chilometro in testa per annullare lo svantaggio. A 125 metri dall’arrivo, cioè a mezzo giro di pista dalla fine, Danimarca e Italia erano separate da 55 millesimi di secondo. La nostra vista era tornata incapace di distinguere: chi era l’inseguitore, adesso? Chi l’inseguito? Non lo sapevamo più.
Sapevamo – questo sì, lo potevamo vedere – che le facce dei danesi erano prosciugate, quelle degli italiani decisamente meno. Ganna dava l’impressione di poter rimanere in testa chissà per quanti altri giri ancora, Jonathan Milan chiudeva il trio senza patemi, Simone Consonni stava a suo agio in mezzo ai due giganti.
Nel corso dell’ultimo mezzo giro, c’è stato un frangente in cui Italia e Danimarca sono state perfettamente appaiate. I due terzetti hanno attraversato all’unisono due punti opposti e simmetrici della pista. Ma immediatamente dopo i ruoli si sono ribaltati per l’ultima volta: l’Italia è riuscita a fuggire. Oppure si è avvicinata quel che serviva ai precedenti fuggitivi, dipende dal punto di vista. Fatto sta che ha vinto l’inseguimento, questa strana declinazione del ciclismo in cui solo alla fine capisci chi sei, in cui la vista da sola talvolta non basta a discernere, serve il supporto dei numeri.
Centosessantasei millesimi di secondo sono pochi, non c’è che dire. Si fa fatica a quantificarli coi mezzi di cui la natura ci ha provvisti, e persino gli strumenti che ci siamo costruiti arrancano in casi come questo, poverini, non è certo colpa loro se uno dei principi su cui si fonda l’universo che abitiamo è l’indeterminazione. Siamo condannati a non poter determinare contemporaneamente velocità e posizione esatte di una particella, stabilì Heisenberg. O velocità o posizione, non tutt’e due insieme.
Per i nostri scopi mondani possiamo tuttavia tralasciare la meccanica quantistica e accontentarci dei cronometri del velodromo di Shizuoka, che stamattina ci hanno detto che la finale olimpica dell’inseguimento a squadre, questo folle nascondino senza possibilità di nascondersi, è finita con una velocità (64,856 chilometri all’ora, record del mondo) e una posizione (la prima, medaglia d’oro) che hanno reso il quartetto italiano storia del ciclismo, e noi davanti alla tv incommensurabilmente felici.
A cura di Leonardo Piccione.