G102T16 Lovere - Ponte di Legno
Le linee del volto di Giulio Ciccone sembrano volersi anticipare a vicenda: la punta del naso protende con decisione verso le labbra, le quali a loro volta tendono verso la parte superiore del viso. Gli occhi sono sfuggenti, e il suo mento presenta un’evidente fossetta al centro: la metà destra e quella sinistra della sua mandibola non hanno trovato il tempo di completare la propria fusione. Tutto sul volto di Ciccone suggerisce un’innata avversione alla calma. L’impazienza è un tratto fisionomico, a quanto pare, ma pure cardiaco: un paio d’anni fa Ciccone si è sottoposto a due interventi di microchirurgia per far smettere il proprio cuore di procedere a un ritmo troppo alto, o troppo irregolare.
L’impazienza di Ciccone comincia dal petto, passa per la faccia e arriva alla testa; di qui di nuovo alle labbra. Nel 2016, a Sestola, dopo aver conquistato la sua prima tappa al Giro d’Italia, Giulio dichiarò di essere felice perché era riuscito a vincere una corsa da professionista, finalmente. Finalmente, disse. Eppure era professionista da meno di cinque mesi appena, e solo Fausto Coppi e Luigi Marchisio avevano vinto una tappa al Giro a un’età inferiore alla sua. Per questo Ciccone in cima al Mortirolo getta via la mantellina che gli è stata appena passata: perché questa mantellina è troppo arrotolata, e Ciccone troppo irrequieto. Dopo due settimane all’attacco, vuole vincere.
Il tempo di infilarsi un foglio di giornale sotto la maglietta e giù in discesa dal Mortirolo, da questo monte che è spaventoso sempre ma oggi forse di più, con la pioggia gelida e le nuvole basse, i rami degli alberi mutati dalla penombra in tentacoli di spettri inospitali. Ciccone si lancia verso Ponte di Legno in compagnia soltanto di una corazza di carta e della sagoma filiforme di Jan Hirt, scalatore di molto talento e poche parole.
Finita la discesa, Ciccone comincia a interloquire con Hirt. Più che una chiacchierata desira un cambio, ma l’altro non sente ragioni. A Hirt tocca temporeggiare, perché dietro ha attaccato López, il suo capitano. Questa tappa è una matrioska: a quattro minuti da Ciccone e Hirt è deflagrata la corsa dei big. Ha cominciato tutto Nibali – lui che negli anni ha fatto dell’impazienza il suo miglior grimaldello – e anche Nibali avrebbe preferito rimanere solo, o al massimo insieme al suo fratello di sangue (Antonio) e a quello di salite (Caruso). Si ritrova invece con il solito solido Carapaz; con Landa, Dombrowski e Carthy. Ma almeno per oggi senza più Roglič, e per lui è già qualcosa.
Davanti intanto Hirt continua a fare di no con la testa: non darà alcun cambio. Ciccone prende a battere i denti per il freddo – benedetta mantellina. Poi sbuffa e sbraita, si agita e gesticola. Forse Ciccone è una sintesi degli stereotipi della nazione che rappresenta, oppure per un giorno è la sintesi perfetta dei suoi idoli di sempre: una volta ha detto che gli sarebbe piaciuto andare in salita come Nibali, durare nel tempo come Valverde e avere la genuinità di Scarponi.
Tagliando il traguardo di Ponte di Legno, dopo avere infine vinto la resistenza di Hirt, la bocca di Giulio Ciccone si articola in una smorfia omogenea, ampia. Un’esultanza che non è un sorriso ma piuttosto la somma di tutte le emozioni apparse disordinatamente sul suo volto in un pomeriggio di ordinaria impazienza. (LP)
PS - Di questo e altro parleremo tra un po' nel nostro podcast notturno "Giroglifici - un programma tutto da decifrare". Non sappiamo ancora quando, ma se ci seguite a un certo punto vi manderemo tutti i link.
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