Un fatterello che non pareva niente di speciale - La prefazione

Di seguito la prefazione alla raccolta "Un fatterello che non pareva niente di speciale - Storie e visioni dal Tour de France 2022", disponibile QUI.

 

Quando Jonas Vingegaard ha tagliato l’ultimo traguardo sugli Champs-Élysées in parata con i giannizzeri della sua Jumbo; quando all’arrivo ha baciato la moglie Trine e la figlioletta Frida; quando infine, sempre di giallo vestito, stavolta per sempre, è salito sul podio a farsi avvolgere dal tramonto parigino – l’Arc de Triomphe sullo sfondo, fiori in una mano e leoncino di peluche dall’altra – allora sì, abbiamo dovuto rassegnarci di fronte all’archiviazione definitiva del Tour de France numero 109, venendo pervasi da un velo di malinconia. Un po’ come quando si finisce un bel libro e vorremmo che non esistesse l’ultima pagina. 

Perché da tempo immemore non avevamo assistito a una corsa così avvincente, elettrizzante, spettacolare, entusiasmante, emozionante. Talmente tutto questo, che chi ha avuto la fortuna e il privilegio di raccontarla ha trovato terreno fertile come non mai per intingervi la propria penna.

Il terreno fertile, però, da solo non basta, bisogna poi saperlo trattare, concimare, accudire, irrigare. Con passione. Con trasporto. Con equilibrata enfasi. Con l’uso giusto delle parole, soprattutto: si fa presto a deragliare quando c’è di mezzo la lingua italiana, lasciata andare alla deriva, di questi tempi, anche nel giornalismo, che dovrebbe invece essere un luogo sacro. 

Non ho alcun dubbio nel riconoscere che i fiori e i frutti del miglior giardiniere della scrittura in cui mi sono fortunatamente imbattuto in questo Tour de France li potete ritrovare in queste pagine, che sono poi la raccolta – o il raccolto, per restare in tema bucolico – dei resoconti quotidiani di questa meravigliosa edizione della Grande Boucle. Leonardo Piccione di Bidon lo ha fatto magistralmente il suo mestiere-piacere di narratore. 

Lo ha fatto con una prosa che spesso sapeva essere anche poesia. Lo ha fatto raccontandoci i primi e gli ultimi, e pure quelli che stanno nel mezzo e magari fanno il lavoro in assoluto più sporco e, alla fine, più utile. Lo ha fatto alla stregua di un sussidiario, raccontandoci storia e geografia, astronomia e semantica, con una spruzzatina qua e là di tanto altro, come quando metti il prezzemolo o il basilico su un piatto: se non c’è, non te ne accorgi; se c’è, è tutto un altro sapore. 

Ho una colpa, non lo nego: prima di questo Tour non avevo mai letto nulla di questo giovane collega. L’ho scoperto casualmente, con la prima tappa. Avrebbe potuto finire lì, oppure diventare una lettura saltuaria, occasionale, di nuovo casuale: bombardati come siamo da resoconti, notizie, lanci di agenzia, post social, telegrammatici tweet, overdose televisive, anacronistici comunicati stampa, noi giornalisti nati nella precedente era geologica fatichiamo ormai a destreggiarci, abbiamo anche perso il piacere della lettura dei prodotti altrui. Al punto da chiederci: qualcuno leggerà il nostro, di prodotto? 

Poi ti imbatti in Leonardo che pennella (racconti) alla stregua del suo illustre omonimo e ti fa riconciliare con il mestiere nostro, ti riporta ai reportage di una volta, quando non era tutto mordi e fuggi, quando non era tutto omologato. E la lettura non poteva restare occasionale, è diventata una necessità. 

Penso di non peccare di enfasite acuta – passatemi il termine – se mi avventuro in un paragone così ardito. Ma il Tour raccontato così – ogni parola al suo posto, ogni momento colto con la sfumatura giusta – mi ha riportato alla memoria i tre fenomenali tenori del giornalismo accomunati dallo stesso nome di battesimo. I tre Gianni alla cui fonte era ogni volta un sublime piacere abbeverarsi: da Brera a Clerici e Mura, c’era ogni volta il desiderio di andare a leggerli, perché se anche non ci fosse stato sempre qualcosa da imparare – nel mio caso peraltro c’era – restava il godimento di quella lettura. 

Non si può dire che io sia un pennivendolo a libro paga di Leonardo Piccione. Ho ammesso il colpevole ritardo nel venire a conoscenza della sua bravura e del suo talento, ma non vuol dire che, per questo, quella bravura e quel talento siano meno credibili. La lacuna era mia, ho fatto mea culpa, e ringrazio questo Tour per avermi messo davanti agli occhi due giovani fuoriclasse. 

Ma se Jonas Vingegaard un anno fa, alla sua esplosione nella scia del già affermato e dirompente Pogačar, non mi convinse del tutto – e di fatto ho dovuto aspettare questo trionfale show per eleggerlo in tutta la sua grandezza – Leonardo Piccione mi ha stregato subito al primo colpo. E sono certo che, se per caso ve li siete persi in diretta, i suoi resoconti riletti a distanza vi riporteranno alle emozioni del più bel Tour degli ultimi 30 anni e vi procureranno identica reazione.

 

Paolo Marabini
Capo Servizio Redazione Sport Olimpici 
La Gazzetta dello Sport

 

 

 

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