La vista di una montagna - Marco Pantani era Charlie Parker

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    Ha avuto il trauma infantile della Grenoble-les Deux Alpes

Si è scritto troppo su Marco Pantani. Pagine e pagine di racconti, interviste, inchieste, smentite, intrighi, complotti. Qualsiasi cosa. Si è scritto anche, ma non si è mai rimarcato davvero, il fatto che Marco Pantani ascoltasse Charlie Parker.

Lo lessi per la prima volta in un'intervista rilasciata a Gianni Mura. Anche lui rimase un po' incredulo. È un fatto un po' strano in effetti. O meglio, un fatto che non ti aspetti da un pelato di 56 chili che semina il panico in salita, con quel pizzetto lì poi.

Il pirata che ascolta Bird. Non te l'aspetti nel momento in cui lo dice, ma poi un po' alla volta, anni dopo, arrivi a capirlo fino in fondo. Riavvolgendo il nastro della vita di Marco Pantani, la sua esaltante ascesa sportiva e poi il suo straziante calvario umano, ti accorgi che sembra tutto studiato alla perfezione. Marco Pantani era unico come Charlie Parker. In questa sua passione per il jazz c'è un po' tutto.
 

«La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua saggezza. Se non la vivi, non verrà mai fuori dal tuo strumento». (Charlie Parker)

Charlie Parker diceva che in quella che gli altri chiamano improvvisazione lui ci vedeva una sottile linea che unisce tutto, un struttura perfettamente studiata; Charlie Parker diceva anche che la musica è essenzialmente il bel tempo, il respiro di aria fresca, la vista di una montagna.

La vista di una montagna.

Bird ha rivoluzionato il jazz. È stato il padre fondatore del Bebop, negli anni in cui la musica si stava trasformando in una mera macchina industriale.
 

«Non riuscivo più a sopportare le armonie stereotipate che allora venivano continuamente impiegate da tutti. Continuavo a pensare che doveva esserci qualche cosa di diverso. A volte riuscivo a sentire qualcosa, ma non ero in grado di suonarlo... Sì, quella notte improvvisai a lungo su "Cherokee". Mentre lo facevo mi accorsi che impiegando come linea melodica gli intervalli più alti degli accordi, mettendovi sotto armonie nuove, abbastanza affini, stavo suonando improvvisamente ciò che per tutto quel tempo avevo sentito dentro di me. Rinacqui a nuova vita». (Charlie Parker)

In pochissime parole Charlie Parker suonava a modo suo, e si drogava. Parecchio. Beveva pure.

Un episodio significativo è quello datato 29 Luglio 1946. Tour de France non disputato per il conflitto Mondiale, Giro d'Italia a Gino Bartali, secondo Fausto Coppi. Charlie entra nella sede della Dial Records di Hollywood per una serie di registrazioni. Sta male, è in crisi di astinenza, suda da far schifo e non riesce neppure a tenere il sax in una posizione consona.

In studio, oltre al giornalista di Billboard Elliot Grennard (che poi racconterà il tutto), c'è anche uno psichiatra. Quando bisogna registrare l'ultima canzone, "Lover Man", revisitazione jazz di una malinconica ballata cantata da Billie Holiday del '41. Il piano attacca, Charlie entra immancabilmente in ritardo. Ma è solo l'ultimo attimo di attesa prima di due minuti fantastici, in cui c'è dentro tutto: il dolore e l'angoscia di una vita intera. I primi due tornanti.
 

«Ci fu una lunga introduzione pianistica, che sembrò interminabile, da parte di Jimmy Bunn, che scandiva il tempo in attesa del sassofono. Charlie aveva mancato l'entrata. Con alcune battute di ritardo, finalmente entrò. La sonorità di Charlie si era rinfrancata. Era stridente, piena di angoscia. In essa c'era qualcosa che spezzava il cuore. Le frasi erano strozzate dall'amarezza e dalla frustrazione dei mesi passati in California. Le note che si susseguivano avevano una loro triste, solenne grandiosità. Sembrava che Charlie suonasse con automatismo, non era più un musicista pensante. Quelle erano le dolorose note di un incubo, che venivano da un profondo livello sotterraneo. Ci fu un'ultima strana frase, sospesa, incompiuta e poi silenzio. Quelli nella cabina di controllo erano un poco imbarazzati, disturbati, e profondamente commossi». (Ross Russel, discografico della Dial Records)

Successivamente Bird verrà riaccompagnato in albergo delirante. Dopo essere entrato nudo nell'atrio dell'hotel, cercherà di dar fuoco al letto di camera sua. Verrà portato nella casa di cura Camarillo, vicino Los Angeles, nome che entrerà nel titolo di un altro suo pezzo magistrale.

Marco Pantani nel ciclismo è stato quello che Charlie Parker ha rappresentato nel jazz.

Pantani ha buttato giù il dominio dei grandi passisti forti a cronometro che si limitavano a controllare in salita: Miguel Indurain, Jan Ullrich, Pavel Tonkov. Ha rotto i canoni prestabiliti di quel ciclismo, riportandoli ad una dimensione più istintiva, più emozionante, più eroica.

Ha trascinato la punta delle sue dita su quella bicicletta gialla, simile ad un sax, suonando linee armoniche nuove, ardite, complesse. Ha rivoluzionato il ciclismo, la sua struttura sintattica, i suoi tempi, i suoi sogni tanto da non aver avuto seguaci alla sua altezza. Mai li avremo. 

È stata un'esperienza artistica esaltante. Tutto questo tenendo conto che Marco Pantani ha vinto poco più di una trentina di corse, quante ne vinceva Merckx in una stagione. Come Charlie Parker, non ha avuto una carriera molto lunga.

Però chi se li scorda quei trenta pezzi. L'Alpe d'Huez, Montecampione, Aprica, Mont Ventoux. Ce li ricordiamo tutti. E infatti in quelle cattedrali verticali che sono le salite Marco Pantani viene ricordato ancora. E il motivo è uno solo: che non conta solo quanto si vince, ma come si vince. Non conta quanto si suona, ma come si suona. E Marco Pantani suonava bene, eccome.

10 Luglio 1997. Alpe d'Huez. Secondo tornante. Jan Ullrich è bello e potente, ma Marco Pantani è troppo grande. È uno di quelli che vengono raccontati dai nonni. È troppo antico. E invece siamo agli albori del nuovo millennio. Il pirata che saccheggia i ragionieri, quelli del compitino, quelli che dosiamo le energie, quelli che poi a cronometro ribaltiamo tutto.

Ha la bronchite, tossisce forte. Ha la gamba sinistra che sembra quella di un invalido. Quel dannato incidente, la solita sfiga nera. Frattura di polso e clavicola, due costole incrinate, otto punti al ginocchio, spalla lussata, lesione al menisco, due vertebre lombari schiacciate, frattura di tibia e perone. Marco Pantani si toglie il berretto, che sta esattamente per terra per quattro secondi, poi un uomo con i pantaloni alzati fino al collo, dopo averlo guardato, lo raccoglie come se fosse il suo.

Ora è un diamante pazzo che splende, con quella testa pelata sotto il sole cocente. Il pirata si riprende tutto. Così forte, fortissimo, sempre per abbreviare la sua agonia. Marco Pantani in quell'istante e in molti altri ci ha riportato agli anni di Charlie Parker, quando c'erano ancora Coppi e Bartali, quando la gente si accalcava attorno ad una radio e i bar da maggio a fine luglio erano sempre pieni.

Molto si è scritto su Marco Pantani, e tutti hanno sempre preteso di conoscerne i motivi, le tensioni vitali, i sogni. La verità è che in fondo nessuno ci è mai riuscito davvero. Le storie di Marco Pantani e di Charlie Parker sono destinate a rimanere indecifrabili in eterno. Mai avremo un quadro completo delle loro esistenze, mai riusciremo ad imbrigliare questi personaggi attorno ad un epiteto, attorno ad un articolo di qualche migliaia di battute.

Resta soltanto l'estrema sensazione di impossibilità di comprensione, il grande stupore di fronte a vite così maledette e insieme affascinanti.
 

«Andate a vedere cos'è un ciclista e quanti vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni». (Marco Pantani).

Oggi suona come un'esortazione. Ma nessuno è mai andato a vedere chi erano davvero Marco Pantani e Charlie Parker, oltre quella maglie rosa e gialle, oltre quegli scatti, a quelle improvvisazioni, a quei fraseggi, oltre a quella bandana, quell'orecchino, quel sax, quegli occhi neri e furbi, oltre a quella droga, quel 51, 52 o 53% d'ematocrito.

Oltre a quelle vittorie e a quei capolavori che anche allora sapevano soprattutto di disperazione.

Marco Pantani figura nell'indice dei "morti per overdose" su Wikipedia, come Charlie Parker. Uno dopo l'altro, per via delle lettere iniziali del cognome. Il primo a 34, il secondo a 35 anni. Marco Pantani ascoltava Charlie Parker. Marco Pantani era Charlie Parker.

Lo era in quella sua propensione, in quella sua volontà e desiderio, in quella sua necessità di essere e di mostrarsi diverso dal mondo. A me piace pensare che quella dannata notte di San Valentino, in quella triste stanza sottosopra, sia riuscito in qualche modo ad ascoltare per l'ultima volta "Lover Man", Charlie Parker, 1946.

 

 

(Articolo pubblicato la prima volta nel febbraio 2016 su Crampi Sportivi. Foto di copertina di Tornanti.cc, sulle strade della Tirreno-Adriatico 2022)

 

 

 

 

 

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