[TdF2022] Parigi per loro

  • Di:
      >>  
     

    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

È finito il Tour de France più veloce della storia. Oltre quarantadue all’ora di media. Nonostante non l’abbiamo corso, e non abbiamo un braccio fasciato né tutte le nuove rughe di Tiesj Benoot della Jumbo-Visma (qualcuno ha fatto notare che le fatiche del Tour l'hanno come trasformato in suo nonno), un certo senso di spossatezza pervade stasera anche noi.

Un indolenzimento lieve ma diffuso, tipico delle vacanze particolarmente dense, quando sulla via del ritorno, sospesi in un luogo che non è più meta del viaggio e non è ancora casa, ci raggiunge la certezza che quello appena trascorso è un tempo di cui un giorno riferiremo ad altri. 

È finito un Tour da record, le tre settimane in cui avemmo l’impressione che se fossimo riusciti a tenere le ruote di Vingegaard e Pogačar, come saltuariamente Geraint Thomas e più spesso i fuggitivi che, rimontati, fissavano per qualche istante la coppia volante nel tentativo di carpirne la superiore essenza, ecco, quei due ci avrebbero condotti infine verso una dimensione parallela, o un altro sistema solare.

Perpetua officina di sogni e memorie, il Tour. «Fabbrica di eroi» come scrisse Pierre Chany, cent’anni dalla nascita quest’anno, del quale Jacques Anquetil attendeva di leggere i resoconti ogni mattina per sapere come e perché in corsa avesse fatto quel che aveva fatto, e che morì nel giugno del 1996, alla vigilia del suo cinquantesimo Tour da inviato.

CONTINUA QUI
 

 

Testo: Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc