Tourbillon: La prefazione
Per qualcuno sarà stato Pantani che getta il cappellino, per altri una vittoria di Bugno o una fuga di Virenque.
Per chi ha qualche anno in più uno scatto di Merckx, per i più giovani invece un’impresa di Gilbert... In ogni caso un primo momento lo abbiamo tutti, quella volta che ci siamo trovati imbambolati davanti a un televisore e abbiamo consegnato tutta la nostra attenzione alla corsa; il nostro cuore, conseguentemente, al ciclismo.
Ma se il primo momento di ciascuno cambia a seconda della gara o dalla stagione, tutti quanti siamo passati inevitabilmente da una prima estate. Che nel linguaggio del ciclismo significa una cosa soltanto: Tour de France.
Se ripercorriamo la nostra memoria, siamo tutti in grado di arrivare a quel primo Tour in grado di risucchiarci, addentare un pezzo della nostra vita e per non mollare mai più la presa.
Il ciclismo è uno sport anomalo: ha la capacità unica di mutare ambienti e caratteristiche, riuscendo così a svolgersi per dodici mesi all’anno o quasi. Eppure il suo periodo di conquista, la sua stagione del raccolto più abbondante, quella è l’estate.
La ragione ritengo sia da imputare al fatto che il ciclismo si nutre di tempi lunghi e di immobilismo. Il ciclismo nasce direttamente dalla noia, e quale stagione rappresenta meglio la noia dell’estate? È la stagione che “cerchiamo tutto l’anno, e all’improvviso eccola qua”, ma quando arriva ci accorgiamo che sono tutti “partiti per le spiagge, e siamo soli quassù in città”.
Non è certo un caso che l’autore di Azzurro sia Paolo Conte, uno che di brani ciclistici ne ha scritti un po’: avrà avuto anche lui la sua prima estate, ritrovatosi solo e annoiato, senza amici, senza programmi decenti in televisione, senza frescura, senza spiagge...
Durante la scorsa estate la redazione di Bidon si è suddivisa secondo diversi criteri geografici e temporali. Abbiamo seguito il Tour de France con due rubriche e un podcast ogni giorno, con l’intento di offrire tre differenti piani di lettura. Ma se da un divano di Milano “Semi di girasole” e “Bonsoir Bidon” si riferivano nello specifico alla corsa, da un divano di Corato “Tourbillon” ha imboccato un’altra direzione: è partito in un viaggio all’indietro nel tempo, alla ricerca di quella prima estate, quando guardare il ciclismo in tv di colpo ci rese felici come bambini.
Perché bambini lo eravamo davvero, e tutto sommato il mondo intorno a noi, gli accenti delle persone, i gusti delle bibite, le nostre debolezze e paure avevano ancora bordi indistinti, che non eravamo in grado di decifrare.
Quello che state per leggere (o ri-leggere) è un viaggio che non ha nulla del fascino geografico del Tour: non c’è la piramide del Louvre che si staglia nel mezzo, non ci sono i campi di lavanda e girasole a far da coreografia. Al loro posto ci sono l’afa della provincia barese, un bar popolato di personaggi senza ambizioni, una lattina di aranciata amara, al massimo un gelato al pistacchio.
C’è la calda noia dell’estate, tanto uguale a se stessa da stimolare evasioni ogni pomeriggio.
Quelle stesse evasioni che, in diversi mesi di luglio del passato, hanno trascinato tutti nel mondo del Tour de France, e che oggi, lasciata alle spalle la malinconia dell’infanzia, possono rivelarsi un vortice di figure a cavallo tra immaginazione e realtà, da immortalare e conservare in quel museo permanente della nostalgia che sono i nostri ricordi estivi.
È grazie all’evasione ritrovata in quel tourbillon che ci sentiamo di ripetere un consiglio a chiunque, anche quando rispondiamo alle lettere anonime: “Dovresti provare a guardare il Tour de France, quando hai un pomeriggio libero”.
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Buona lettura, e buona estate!