Un palo solo - la Vuelta 2017 in televisione
A 300 metri dall'arrivo della decima tappa della Vuelta (curiosamente collocato in un macello, definito ElPozo Alimentación), sono in due a giocarsi la vittoria di giornata: José Joaquín Rojas e Matteo Trentin. È uno sprint potenzialmente aperto, e i due sono ancora molto vicini, l'attesa è al suo acme, ed è in questo preciso istante che la telecamera fa una piroetta, mette a fuoco, e indugia su un palo. Alto, grigio, solitario. Non c'è nemmeno la grazia di una colomba, di un piccione, di un gabbiano a fargli compagnia.
Lo zoom insiste meno di un secondo, quasi a cercarne il dettaglio, chissà, forse della ruggine, i resti di un adesivo - ma chi si sarà mai arrampicato ad attaccarlo sin lassù. Lì sotto c'è la corsa con la sua frenesia, le urla e due corridori che si stanno giocando una vittoria. Accade lì intorno, deve essere lì intorno, ma per un secondo o poco meno la cosa più importante della Vuelta è quel palo. In quell'istante ho capito di essermi innamorato del regista di questa Vuelta.
Stacco, volata lunga, Trentin la imposta alla perfezione, Rojas non può farci nulla. Nei minuti successivi arriveranno gli altri fuggitivi, poi le avanguardie del gruppo: sorprendentemente è Nicolas Roche, terzo in classifica, che distanzia di una trentina di seconda i rivali. Come abbia fatto non lo sappiamo, nessuno ce lo ha mostrato. Del palo non abbiamo più notizie, non godrà nemmeno di un piccolo frame prima che il benefattore che ha condiviso per tutto il pomeriggio l'agognato streaming stacchi il segnale. La sua solitudine resterà raccontata per un secondo soltanto.
Eppure in quel palo c'è l'intera storia televisiva di questa Vuelta. Il palo è il sacchetto che sbatacchia nel vento di "American Beauty", è il protagonista silenzioso. È la solitudine del regista di questa corsa, che parrebbe messo lì controvoglia, a occuparsi di qualcosa che non conosce e che non gli interessa, e che invece dalla corsa trova lo spunto per mostrare altro, rimettere in discussione le certezze di chi osserva, ipotizzare un protagonismo dei pali, anziché delle biciclette.
La scena del palo, che svetta nel cielo della provincia di Murcia, è tanto unica quanto ordinaria nel racconto visivo di questa Vuelta. La stessa volata si era aperta con il lento abbassamento dell'obiettivo ad indagare la pancia del motociclista che lo trasportava. Il giorno successivo si assisterà ad un breve attacco di Alberto Contador e Vincenzo Nibali, e le telecamere riporteranno una storia di tetti variopinti.
Qualche tappa più in là, procedendo verso i muri di Los Machucos, il vento scombinerà l'ordine del gruppo, sparpagliandone gli elementi di testa, ma le immagini resteranno sulla coda, sul trascinarsi lontano della corsa, tanto da lasciare gli stessi telecronisti nel dubbio di cosa stia accadendo davanti. Un dubbio che si rinnova in ogni istante quando, con un tocco quasi barocco, le immagini cominciano ad allontanarsi e alzarsi verso il cielo, un po' a zig-zag, sino a bucare le nubi stesse e proiettarsi verso il cosmo.
La visione dall'alto, come dalla cima di un palo di lunghezza celestiale, è la cifra che tiene insieme i pezzi di tutta questa Vuelta televisiva. Ripresa dall'altissimo la danza multicolore del gruppo sui tornanti delle salite diventa il movimento delle ballerine sul campo da football nel "Cremaster 1" di Matthew Barney. Le telecamere distanti, come dirigibili al cui interno lo sguardo perforante del regista trascina verso di se' gli acini d'uva della corsa. Il racconto si svuota della sua narrazione intrinseca, diventa una visione passiva, guidata dall'esterno, in cui lo svolgimento della storia è lasciato all'immaginazione dell'osservatore. E così facendo, mostra un ciclismo nuovo.
Oggi ci si lamenta spesso della scontatezza del ciclismo, perlomeno di quello condannato all'iterazione delle grandi corse a tappe. La noia è argomento dibattuto e condiviso ormai anche dagli appassionati più radicali. Si immaginano possibili vie, riforme o rivolte. L'approccio per immagini a questa Vuelta ha mostrato un'uscita d'emergenza, diversa da tutte quelle che erano state discusse sin qui. Non concentrarsi più sul ciclismo pedalato, ma su quello immaginato. La regia di questa Vuelta, tanto lacunosa e raffazzonata dal diventare creativa, ha osato sperimentare una via differente. Ha rimosso i fatti, e al centro ha messo l'intuizione, al centro ha messo un palo.
Siamo ormai abituati a vedere il ciclismo scarnificato, scandagliato in ogni suo millimetro, ridotto all'osso. Vediamo le corse dal chilometro zero. Abbiamo telecamere in mezzo al gruppo e corridori che non vedono l'ora di condividere ogni dettaglio sui social network. Abbiamo i dietro le quinte, i selfie, i microfoni nelle ammiraglie. Anno dopo anno si affacciano le velocità in tempo reale, i watt in sovraimpressione, le comparazioni scientifiche tra i protagonisti. Ciò che si è ridotto all'osso è lo spazio per l'immaginazione, che giocoforza non può più essere quella guidata dagli aneddoti fantasiosi di Adriano De Zan, ma quella dello spettatore, solo davanti al suo computer.
Il regista di questa Vuelta ha sicuramente un nome e un cognome, che saranno facilmente rintracciabili con una veloce ricerca su internet. Ma ho preferito non scoprirlo, non dargli ne' un nome ne' un volto, visualizzarlo diverso di volta in volta, misterioso come un demiurgo, come un fauno, come un ballerino di tip-tap che saltella da un palo all'altro.
Domani pomeriggio la Vuelta uccide il suo ultimo mostro, l'Angliru. Risalirà tra le nubi dove la vista si appanna e l'immaginazione è resa nuovamente necessaria. Sarà una fortuna, l'ultima, per farsi trascinare in questo sogno lucido, varcare la soglia che immette in un ciclismo differente, dove torna forte il passaparola, l'intuizione, e quella curiosità che ci permette di chiedere a chi ci sta intorno, ancora una volta, "scusi, chi ha fatto palo?".