Quattro uomini e un muro

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    Scalatore da bancone, pistard da divano. Ama il rumore, i bratwurst, dormire e leggere seduto sul water. Ha visto il volto di Dio in tre occasioni: una volta era Joey Baron, le altre due Laurent Jalabert.

In questa fotografia ci sono quattro corridori e un muro. Di soliti i ciclisti si relazionano con i muri per tre ragioni principali. Una è tecnica: un muro è un ottimo supporto a cui appoggiare la bicicletta. Una è fisiologica: in mancanza di bagni i muri sono spesso validi orinatoi. La terza è dolorosa: il muro capita che sia il punto terminale di una scivolata. In questa fotografia il muro non serve a nulla di tutto ciò. Rappresenta invece un belvedere, un punto d'osservazione su un mondo nascosto, che suscita interesse e curiosità nei quattro ciclisti. E non è l'unica anomalia. L'altra, la più ovvia, è che tra i quattro corridori professionisti e il muro, il più famoso è quest'ultimo, per quanto non sia certo il più celebre tra i muri del ciclismo.

Il 1° luglio del 1987 il Tour partì da Berlino. La Société du Tour de France non aveva mai portato il proprio "départ" (ai tempi non ancora "grand") così lontano dalla Francia: lo fece per celebrare i 750 anni della città, ma soprattutto per intervenire in una guerra fredda ormai agli sgoccioli. Le prime tre delle venticinque (!) tappe del 74° Tour si svolsero tutte a Berlino Ovest, tra due ali di folla e una barriera di cemento. Una frontiera concreta che divideva in due l'Europa e il mondo, ma che il ciclismo, sport da sempre itinerante attraverso i confini, provò a sgretolare. Per quanto invalicabile, il muro fu incrinato invitando per la prima volta una squadra dell'est, e proprio a Berlino il polacco Lech Piasecki portò la prima maglia gialla oltre la cortina di ferro.

Tutto questo restò invisibile al di là del muro. Solo chi viveva nei pressi della barriera riusciva a ricevere il segnale di radio e tv occidentali. Tra i pochi fortunati c'era anche un 15enne Jens Voigt, ospite della scuola atleti Ernst Grube di Berlino Est, che quel pomeriggio scoprì quanto potesse diventare grande una corsa ciclistica. 862 giorni dopo questa fotografia, un amico venne a bussare alla porta della sua stanza. "Hey, hanno aperto il muro! Ti va di andare a fare un giro dall'altra parte?". Dieci anni più tardi, un tedesco vinse il Tour de France.

Dallo scatto di questa fotografia, condivisa ieri su Twitter da uno dei quattro "osservatori appesi", Eduardo Chozas, è passato parecchio tempo. Chozas (#84) concluse quel Tour al 25° posto, a 1h14'59" dal vincitore Stephen Roche, ma per il terzo anno di fila riuscì ad aggiudicarsi una tappa, la 22ª da La Plagne a Morzine. Ritiratosi nel '93, oggi dirige squadre giovanili e organizza competizioni di mountain bike, oltre che lavorare come commentatore per riviste, radio e televisioni. Enrique Aja (#82) arrivò 58° a fine Tour e dopo cinque stagioni appese la bici al chiodo, senza mai uscire del tutto dal mondo del ciclismo. Jesús Blanco Villar (#83) abbandonò quel Tour alla 15ª tappa e da allora non ottenne più importanti successi ma divenne un apprezzato gregario; oggi è il direttore sportivo della formazione under23 galiziana Cortizo. José Salvador Sanchis (in maglia Caja Rural) concluse la Grande Boucle in 35ª posizione. Passato professionista con grandi speranze non riuscì mai a confermare tra i risultati ottenuti tra i dilettanti; ritiratosi a soli 27 anni, da allora dirige squadre giovanili, gestisce un negozio di bici e per lungo tempo ha seguito in corsa la figlia Anna Sanchís, più volte campionessa nazionale.

Il protagonista più celebre della foto resta però lui, il muro, benché tra i cinque sia l'unico ad essere scomparso. Dopo aver diviso in due la città di Berlino per 28 anni, il Muro cominciava a crollare la notte del 9 novembre 1989. Oggi sono 30 anni esatti da quella notte.

 

 

 

 

 

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