Michael Mørkøv è un pallino solitario abbandonato al suo destino. La grafica lo indica con un numero 3 nel circoletto. Avanza lento sulla mappa della corsa aggiornata in tempo reale, che è anche l’unico modo per sapere se sia ancora in gara, e dove si trovi.

Così anche Michael Matthews ce l’ha fatta.

Ogni giorno in cui arriva la fuga è un giorno buono. Partiamo da questo assunto – dalla certezza s’intende che il successo degli evasi sia sempre un balsamo per i nostri sogni frustrati di ribellione – per riconoscere che talvolta non si può fare a meno di incitare gli inseguitori e, pur senza passare dalla loro parte e spingere insieme a essi verso la ricomposizione dell’ordine costituito, comprendere appieno le loro ragioni, i loro tormenti.

Tra le oltre dodicimilacinquecento coppie che poteva formare combinando i centocinquantanove corridori ancora in gara, il Galibier, romanziere sapiente come pochi, decide di scegliere una delle più curiose, impronosticabili e spiazzanti del Tour de France 2022.

Come molte delle cose che ci rendono più sopportabile la vita, il pomeriggio di ciclismo più luminoso degli ultimi anni comincia con le sagome affiancate di Wout van Aert e Mathieu van der Poel.

Si guardano, si scambiano un cenno d’intesa, poi attaccano: in coppia, al chilometro zero, con la complicità che appartiene solo ai rivali. È un presagio, l’annuncio di una gioia che sarà per tutto il popolo: oggi è uno di quei giorni, oggi si fa la storia. 

Selezioniamo il vincitore dell’ultima Parigi-Roubaix (Van Baarle), il vincitore di un Giro delle Fiandre (Bettiol), il vincitore di tutte le classiche Monumento tranne la Milano-Sanremo (Gilbert), un già campione del mondo in linea (Pedersen), l’attuale campione del mondo a cronometro (Ganna), gente che ha vinto tappe al Tour (Sánchez), gente che ha vinto tappe alla Vuelta (Sbaragli), gente che ha vinto tappe al Tour e alla Vuelta (Cort e Clarke), gente che ha vinto tappe al Tour e al Giro (Boasson Hagen e Kämna), gente che ha vinto tappe al Tour, al Giro e alla Vuelta (Izagirre), il corrid

Sarà colpa nostra, che non esitiamo a subappaltare i nostri cuori a pedalatori fallibili, destinati per loro natura a ridurceli in mille pezzi, o sarà colpa di questo sport, che una domenica di luglio decide senza preavviso di mettere contro, in una sorta di crudele spareggio del destino, due dei campioni più belli e fragili della nostra epoca, garantendo solo a uno di essi di ritrovare la luce piena in un luogo adeguatamente denominato “Les Portes du Soleil”? 

Dura la vita per quelli come Matthews. Troppo velocisti per giocarsela con i migliori scalatori e troppo scalatori per giocarsela con i migliori velocisti, i corridori simili all’australiano della Bike Exchange si trovano non di rado nella condizione tutt’altro che desiderabile dei ‘primi battuti’.

Ha detto Rafał Majka che Pogačar va in bici come gioca alla PlayStation, e forse è per rispetto di questa similitudine da lui stesso partorita che all’attacco del tratto più duro della Planche, non avendo per le mani un joystick ma un manubrio, lo scalatore polacco compie il gesto che nella sua personalissima mimica equivale evidentemente a premere il tasto START: si sfila, allarga il braccio sinistro e a mano aperta indica al giovane capitano l’erta polverosa sulla quale divertirsi, dando sfoggio delle mosse speciali che conosce solo lui e che lo rendono il più implacabile dei partecipanti

C’è dell’inquietudine nello sguardo di Jakob Fuglsang mentre, concluso un rapido scambio di vedute con Van Aert, accosta sulla destra della strada per Longwy e mette il piede a terra. È possibile sia a causa del bisogno fisiologico che sta per usare come pretesto per farsi raggiungere dal gruppo, ma più verosimilmente Fuglsang è scosso per le parole che la maglia gialla ha appena pronunciato: da quello che ha scorto nel suo sguardo mentre le scandiva. 

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