Dura la vita per quelli come Matthews. Troppo velocisti per giocarsela con i migliori scalatori e troppo scalatori per giocarsela con i migliori velocisti, i corridori simili all’australiano della Bike Exchange si trovano non di rado nella condizione tutt’altro che desiderabile dei ‘primi battuti’.
Ha detto Rafał Majka che Pogačar va in bici come gioca alla PlayStation, e forse è per rispetto di questa similitudine da lui stesso partorita che all’attacco del tratto più duro della Planche, non avendo per le mani un joystick ma un manubrio, lo scalatore polacco compie il gesto che nella sua personalissima mimica equivale evidentemente a premere il tasto START: si sfila, allarga il braccio sinistro e a mano aperta indica al giovane capitano l’erta polverosa sulla quale divertirsi, dando sfoggio delle mosse speciali che conosce solo lui e che lo rendono il più implacabile dei partecipanti
C’è dell’inquietudine nello sguardo di Jakob Fuglsang mentre, concluso un rapido scambio di vedute con Van Aert, accosta sulla destra della strada per Longwy e mette il piede a terra. È possibile sia a causa del bisogno fisiologico che sta per usare come pretesto per farsi raggiungere dal gruppo, ma più verosimilmente Fuglsang è scosso per le parole che la maglia gialla ha appena pronunciato: da quello che ha scorto nel suo sguardo mentre le scandiva.
Un giorno dovremo stabilire se il fatto che la competizione più prestigiosa di uno degli sport più tecnologici al mondo rischi di essere segnata nel suo esito da una balla di fieno improvvidamente spinta (forse da una motocicletta di servizio) all’interno della carreggiata sia un elemento di impareggiabile fascino o di inaccettabile anacronismo, ma quel giorno non è oggi.
C’è Wout van Aert che sulla linea del traguardo della quarta tappa muove su e giù le braccia. Mima un uccello (qualcuno dice un gabbiano, i meglio informati sostengono una fenice, l’estensione degli arti suggerirebbe un albatro), e nessuno sul lungomare di Calais si sorprenderebbe di vederlo spiccare il volo per davvero.
Ha detto Magnus Cort che il suono dei tifosi danesi è un ruggito. Poi ci ha pensato meglio e ha cambiato ambito sensoriale: è uno schiaffo in faccia. Si sentono sulla pelle quegli ululati che interpellano, quei vocalizzi che benedicono, quei battimani che scandiscono, il giovane Louvel dell’Arkea si è spinto a dire che al termine della tappa gli facevano più male le orecchie che le gambe.
Il primo a partire è Jérémy Lecroq della B&B Hotels, ventisette anni. Ha detto che correre il Tour è come toccare il sacro Graal. C’è da capirlo: per lui è la prima volta, e quanto sono dolci certe prime volte lo sa anche chi un Tour de France non lo correrà mai.
Sì è appena conclusa la settimana dei campionati nazionali di ciclismo. Si tratta – se seguite questo sport il giusto lo saprete – di una delle settimane più importanti della stagione. Quanto meno da un punto di vista cromatico, diciamo così.
«Faccio ancora fatica a esprimere a parole gli eventi di ieri, l’angoscia di quei volti e di quei corpi feriti in seguito alla caduta. Penso a Julian, ma anche a tutti gli altri ragazzi coinvolti, che avranno forse visto le loro vite scivolare via, quando, a più di 70 all’ora, il fruscìo del gruppo ha lasciato il posto al caos, al suono di componenti che si rompono e grida umane che emergono. Sono commosso da tutti i vostri messaggi, ma penso onestamente che chiunque in quella situazione si sarebbe comportato allo stesso modo.»