Esiste un confine, nelle cose della vita, oltre il quale ciò che è sembrato a lungo rimediabile appare d’un tratto ineluttabile. Al di qua di questa linea ci sono ancora scelte a disposizione, un certo margine per valutare i pro e i contro, un ventaglio di possibilità che preferiremmo non evolvessero in recriminazioni; al di là, tutto è stato deciso.

Racconti belli come le corse di ciclismo è complicato scriverne. Non ci riuscì Ernest Hemingway, giusto per fare un nome, che pure tentò diverse volte di buttar giù storie che catturassero il fascino delle gare di biciclette che così tanto l’avevano avvinto verso la fine degli anni Venti. Soggiornava per lunghi periodi a Parigi, all’epoca.

Un Tour de France da acchiappo, fatto per prendere ma anche per essere preso: per afferrare la Storia, se hai la fortuna di chiamarti Tadej Pogacar – ma anche Romain Bardet, Richard Carapaz, Mark Cavendish, Bini Girmay o in molti altri modi; per essere preso o ripreso, forse compreso, se lo strumento principe non è la bicicletta ma la penna. Queste pagine allacciano le storie nascoste nelle pieghe della corsa, nei suoi personaggi, attori e spettatori, nei suoi paesaggi. Insomma, inseguono quel “non so che d’alato". 

(dalla prefazione di Michele Polletta).

Rieccoci. È di nuovo quel periodo dell’anno, stavolta arrivato un po' prima del solito. Fa caldo, è consigliabile bere molto, in tivù c’è il Tour de France... e qualcuno la notte legge i pezzi di Bidon. 

Sostenitori delle buone abitudini, anche quest’anno racconteremo la Grande Boucle per mezzo degli ormai tradizionali resoconti curati da Leonardo Piccione.

Nel momento in cui, sulle pendenze più arcigne della Côte de la Redoute, Tadej Pogačar esce dalla fiammeggiante scia di Domen Novak e si alza sui pedali per la durata necessaria - meno di dieci secondi - a ridurre in frantumi la Liegi-Bastogne-Liegi 2024, alle sue spalle l’inquadratura include soltanto altre tre sagome pedalanti, infinitamente più scomposte della sua, tre sagome che arrancano mentre quella di Pogačar levita, tre sagome destinate a ridursi nel volgere di pochi metri a una sola, poi a nessuna.

Forse è per via della sovrapposizione di date. Oppure per il portato religioso che il ciclismo conserva, soprattutto in chi ha ricevuto un'educazione cattolica.

La consueta sequenza di polvere, sobbalzi, disordine, lerciume.

Poi cadute (Rex, Merlier, Viviani e Milan tra i primi estromessi dalla contesa), forature (Pedersen, Degenkolb, Politt e Segaert, tutti costretti a forsennati inseguimenti), battibecchi con la giuria (Tarling, espulso per bidon collé), vento in faccia (soprattutto quella di Mathias Vacek, 22 anni da compiere e ore trascorse a tirare per i compagni in testa a questo o quel gruppetto), generalizzata fatica.

La Roubaix più veloce della storia dopo la Sanremo e il Fiandre più veloci della storia.

Alla lettera, Koppenberg significa “Monte delle teste”, dove le teste, nello specifico teste di bambini, sono i ciottoli incastonati nella strada che vi s’inerpica. Il soprannome invece è “de bult van Melden”, la gobba di Melden, dal nome della piccola frazione di Oudenaarde che sorge ai suoi piedi.

Il ciclismo è uno sport spietato, lo sappiamo. La regola su cui si fonda, il principio che precede qualsivoglia disquisizione tecnico-tattica è quello fisico dell’equilibrio, l’equilibrio arioso, liberante, poetico eppure drammaticamente precario sempre sottinteso all’andare in bicicletta.

È inevitabile che i ciclisti scivolino, ruzzolino, sbandino, rovinino, capita loro spesso e senza distinzione censuaria: cadono gregari e fuoriclasse, velocisti e scalatori, giovani e veterani, un perpetuo democratico caotico capitombolare che presto o tardi riguarda tutti. 

Poco dopo aver tagliato la fasciona bianca-nera-bianca del traguardo di via Roma, Jasper Philipsen viene raggiunto da Michael Matthews e Tadej Pogačar, che per questione di centimetri più che di centesimi di secondo sono i primi battuti della Milano-Sanremo 2024.

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